venerdì 1 febbraio 2013
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Non ce l’ha fatta. L’altra notte è morto anche Antonio Minichini, il diciottenne rimasto ferito qualche giorno fa nell’agguato di Ponticelli, periferia orientale di Napoli. Il suo amico, Gennaro Castaldo, colpito alla schiena, morì sul colpo. Aveva vent’anni appena. Altre due giovanissime vite stroncate. A vederli in fotografia fanno quasi tenerezza. Ambedue con le orecchie leggermente a sventola, lo sguardo basso e la barba appena accennata. Non erano stinchi di santo. Non facevano volontariato. Non si impegnavano per rendere più bello il mondo. È vero. Avevano scelto di delinquere. E ora quella scelta Antonio la paga anche post-mortem, col divieto di funerali pubblici imposto dalla Questura. Mi chiedo però se a quindici-sedici anni il figlio di un boss di una periferia napoletana, affamata e insanguinata, sia veramente libero di scegliere. Il denaro che circola tra gli affiliati è tanto. Troppo per non ammaliare i deboli. La strada di questi due giovani è già tracciata. Avrebbero certamente potuto ribellarsi e cambiare rotta, ma non sempre è facile. Occorrono ideali chiari e cuori grandi. A quella età se le virtù non sono state coltivate non si possono inventare. Si agisce d’istinto. E quando ci si rende conto di essere finiti in trappola in genere è tardi per poterne uscire. Perciò occorre arrivare prima. Arrivare in tanti per gettare semi buoni in un terreno ancora vergine. Scuola, Chiesa, agenzie educative debbono rafforzare la loro presenza. Occorrono testimoni caparbi e disinteressati che facciano scaturire la voglia di fare il bene. La repressione da sola non basta. L’abbiamo visto mille volte: il gioco di guardie e ladri alla fine si rivela estenuante. Gli sprechi milionari, gli imbrogli miliardari perpetuati da chi dovrebbe tutelare il cittadino sono una manna per i disonesti. Un paravento dietro cui nascondersi e giustificare il loro operato. Non è il danno economico a fare più male, ma la sfiducia che prende ad albergare nei cuori dei più deboli. Perciò occorre arrivare quando il cuore è tenero per accogliere semi di carità, desideri di solidarietà, amore per la giustizia e impegno nello studio. Nei quartieri a rischio si diventa adulti presto. Alcune tappe dello sviluppo vengono saltate. Per tanti l’adolescenza è solo un passaggio momentaneo, un pizzico di nostalgia per un tempo mai vissuto. L’Italia che si prepara a eleggere i suoi rappresentanti deve mettere in agenda questi luoghi difficili e problematici. Luoghi di sofferenza e di morte. Non può dimenticare centinaia di giovanissime vite trucidate in una città che vuole essere moderna. Non è possibile consegnare interi quartieri alla malavita attendendo i prossimi morti, perché a questo ultimo duplice omicidio ci sarà la risposta, e poi un’altra, e un’altra ancora. Intanto a pochi chilometri di distanza – siamo ad Afragola – a don Ciro Nazzaro, parroco buono e coraggioso, qualche sera fa viene fatto recapitare un proiettile davanti alla porta della chiesa. Pochi giorni prima il sacerdote aveva accompagnato alcuni giornalisti tra i viali del quartiere Salicelle. Le telecamere ai delinquenti non piacciono. Fanno paura. Gli affari loschi si fanno nel segreto. Per i camorristi un’azione innocente come quella di don Ciro è un affronto. Don Puglisi era inviso alla mafia palermitana solo perché faceva bene il suo dovere di prete. Don Diana era insopportabile ai camorristi di Casale. Anche don Ciro non è amato da chi lucra sulla pelle dei poveri. Ed ecco che, puntuale come l’alba, arriva l’intimidazione. Vecchia. Noiosa. Sempre la stessa. Ma capace di impaurire. Un proiettile. Senza sprechi di parole. Un avvertimento inequivocabile: "Prete, smettila. Fatti i fatti tuoi. Non costringerci a passare all’azione". Don Ciro lo raccoglie, sorride amaramente, alza le spalle e dice: «Bene... andiamo avanti, senza farci intimorire...».
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