martedì 21 luglio 2009
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La Conferenza episcopale sarda entra ancora una volta in campo a sostegno della 'vertenza Sardegna'. La nuova occasione è stata l’annuncio dell’Eni relativo alla chiusura (per due mesi dice la società) del cuore della chimica sarda, il cracking di Portotorres. La chiusura di questo impianto avrà pesanti ripercussioni su tutto il territorio regionale (Nuoro, Cagliari, Sarroch), con contraccolpi gravissimi sul piano dell’occupazione e sulle condizioni di vita di migliaia di famiglie.Il richiamo dei vescovi sardi, nel condividere con le istituzioni regionali e con le forze sociali il forte appello all’unità di tutte le parti, sottolinea la necessità di non adottare piani tampone o interventi di rattoppo ma di articolare «un piano straordinario per le politiche industriali almeno per i prossimi cinque anni», unitamente a tutta un’altra serie di misure (dalla continuità territoriale ai problemi delle infrastrutture) spesso annunciate e mai realizzate. La preoccupazione è così marcata che il documento ammonisce sul fatto che «la disoccupazione, prima ancora che una piaga economica è un disastro antropologico». Se le intenzioni dell’Eni, ma anche del suo azionista di riferimento (il governo) dovessero confermarsi si potrebbero prefigurare scenari ancor più allarmanti di quelli già drammaticamente presenti nell’isola. Da un tasso di povertà tra i più elevati (23% delle famiglie) del Paese, ad un tasso di disoccupazione crescente, a una massa di scoraggiati sempre più numerosi. Anche le principali variabili economiche – dal Pil, alle esportazioni e alla produzione industriale – presentano tutte andamenti declinanti che fanno intravedere una prospettiva non certo favorevole. Il disinteresse dell’Eni dal settore chimico significherebbe la conclusione dell’esperienza industriale della Sardegna. D’altro canto questo modello operativo è del tutto coerente con quanto è accaduto solo di recente nel sistema bancario internazionale. Il comportamento dell’impresa si identifica con l’obiettivo di sfruttare le contingenze, massimizzare i profitti, drenare risorse e lasciare quando non vi sono più le convenienze. L’Eni in Sardegna, dove è presente nella chimica da circa 30 anni, ha fatto esattamente questo. Attraverso le varie leggi di incentivazione regionali e nazionali ha avuto migliaia di miliardi delle vecchie lire e ha inquinato in maniera molto seria tutti i siti industriali ove dispone di stabilimenti. Oltre al danno la beffa. Nel merito il documento della Conferenza episcopale sarda condivide anche la richiesta di «ottenere le bonifiche delle aree industriali gravemente inquinate». Ma è del tutto evidente che il problema è più generale e richiama in primo luogo la questione del comportamento etico delle economie. Quando i vescovi sardi fanno riferimento al «disastro antropologico» pongono al primo posto la preoccupazione per l’uomo e per le persone di questa regione ingannate ed immolate alla causa del profitto e ribadiscono che la sorte di migliaia di famiglie non può essere circoscritta solo a dispute riguardanti l’incremento o il decremento di mezzo punto percentuale del Pil. La necessità di comportamenti etici nell’economia, peraltro, è stata oggetto di grande discussione nel recente vertice del G8 all’Aquila ma soprattutto è l’argomento principale della recente enciclica papale «Caritas in veritate». Nonostante tutti questi appelli il comportamento dell’Eni e dei suoi azionisti continua a percorrere le vecchie strade: prima i conti aziendali poi le persone. Tuttavia, in presenza di una vasta unità come quella che si sta realizzando in Sardegna (e non solo), davanti alla crescente voglia di non cedere e di lottare per la dignità del lavoro, stavolta l’Eni non potrà far finta di nulla.
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