mercoledì 17 giugno 2009
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Un braccio di ferro all’interno del regime. La complicata, ma non necessariamente lunga, crisi ira­niana sembra avere le connotazio­ni di uno scontro di potere più che di una resa dei conti tra fautori del­la teocrazia nazionalistica e soste­nitori di un sistema pienamente li­berale e democratico. Tra la base che è scesa in piazza a fa­vore dello sconfitto Mir Hossein Mussavi probabilmente non man­cano ammiratori dello stile di vita sociale e politico dell’Occidente, ma certo né il candidato riformista che chiede nuove elezioni, né le perso­nalità che in qualche modo hanno fatto fronte con lui – da Khatami a, con molti distinguo, Rafsanjani – vo­gliono mettere in discussione l’or­dinamento che ha al suo vertice u­na guida suprema religiosa. Né, pur con il loro approccio pragmatico e maggiormente realista, sembrereb­bero intenzionate a disfarsi in bre­ve tempo del programma nucleare che tanto preoccupa il mondo. Quale sia la misura dei brogli che hanno caratterizzato le elezioni pre­sidenziali risulta al momento diffi­cile da stabilire. Tuttavia, alcuni da­ti disaggregati suggeriscono che l’af­fermazione di Ahmadinejad non so­lo nelle zone rurali, a lui certamen­te vicine, ma anche a Teheran – da­ta come molto più spostata verso i riformisti – e nella provincia natale dello stesso Mussavi sia quantome­no assai sorprendente. E un ricon­teggio parziale, quale quello pro­messo ieri dal Consiglio dei Guar­diani, non potrà ribaltare il risulta­to salvo clamorosi colpi di scena. Sebbene non sappiamo se la dura reazione del regime sia stata pro­porzionale all’entità delle manipo­lazioni, come ha sostenuto il presi­dente francese Sarkozy, di sicuro gli spari sulla folla, la repressione del­le contestazioni e la stretta sul­l’informazione hanno svelato un volto del regime che riduce la legit­timità del rieletto Ahamadinejad. Non si può escludere a questo pro­posito che la contestata linea mor­bida dell’Amministrazione Obama abbia giocato un ruolo nel far e­splodere le contraddizioni dell’e­stablishment iraniano. Un Bush dal­la faccia feroce, che si poteva util­mente dipingere a scopi domestici come 'nemico' deciso a umiliare il Paese, avrebbe dato minor margi­ne di manovra al gruppo 'dissiden­te'. L’apertura americana della vi­gilia e la cautela nel commentare l’esito delle urne rende invece ar­duo indirizzare all’esterno, da par­te dei 'falchi', le tensioni sorte in patria. Ciò non significa che cambieranno rapidamente lo scenario interno e quello internazionale. Ago della bi­lancia a Teheran resta la Guida su­prema Khamenei, il quale pare che tema più Rafsanjani, suo possibile successore, di quanto apprezzi Ah­madinejad. Di qui la possibilità che i brogli siano stati un fatto compiu­to davanti ai quali ha dovuto fare buon viso e che ora tenti di ripristi­nare lo status quo ridimensionan­do la portata della vittoria del pre­sidente uscente. E se gli Usa persi­steranno – come sembra – nella vo­lontà di negoziare, Ahmadinejad, pur indebolito nell’immagine (ma salutato ieri dall’asse russo-cinese) e bisognoso di maggiori coperture interne, potrà riprendere la sua par­tita, sapendo che il tempo lavora per lui. Il Mossad israeliano stima in­fatti che la bomba degli ayatollah sarà pronta già nel 2014. L’Iran resta un enigma di comples­sa decifrazione e una potenziale mi­naccia alla pace della regione. Le sue contrapposte piazze, piene e agita­te, per ora non danno elementi che facciano sperare in una svolta.
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