domenica 3 aprile 2016
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Di fronte ai grandi movimenti migratori provenienti dall’Africa e dall’Oriente, l’Europa sta giocando sostanzialmente in difesa. La preoccupazione principale, in certi casi l’unica, è quella di rendere più difficile l’ingresso alzando muri di filo spinato ed emanando norme restrittive o che appaiono tali. L’esempio più recente viene dal Belgio dove ai cittadini extracomunitari che vorranno stabilirsi nello Stato si imporrà di firmare una sorta di contratto impegnandosi a imparare la lingua, a rispettare gli usi e costumi, a denunciare qualsiasi atto legato al terrorismo. Dimenticando così che quasi tutti gli attentatori di Bruxelles e Parigi non erano nuovi arrivati, ma cittadini belgi, di seconda o terza generazione. Si potrebbe osservare che viene chiusa la stalla quando i buoi sono già scappati. Anche se non è mai troppo tardi per darsi una misura comune, e rendere chiari i capisaldi del patto di civile convivenza e di solidarietà che regge le società aperte e democratiche. In realtà, in Belgio come altrove si stanno raccogliendo i frutti avvelenati di un comportamento sostanzialmente autolesionista di fronte all’immigrazione: per decenni ci si è illusi – arrivando a teorizzarlo secondo lo schema multiculturalista – che la convivenza si potesse costruire sul vuoto, sul nulla, sulla neutralizzazione delle identità, come se le nuove culture che mettevano radici in una terra non dovessero mettersi in relazione con la cultura che quella terra aveva "fondato", e che veniva presentata e avversata (anche a causa di errori, in Belgio purtroppo palesi e gravi) come sorpassata e non più essenziale. Nessuno può avere la presunzione di proporre formule magiche per affrontare movimenti migratori che per la forza delle motivazioni che li accompagnano – guerre, persecuzioni, carestie, povertà – non hanno precedenti nella storia recente e che testimoniano la drammatica verità delle parole di papa Francesco quando avverte che non siamo di fronte a un’epoca di cambiamenti ma a un cambiamento d’epoca. D’altra parte non si può fare a meno di rilevare che lo smarrimento che pervade decine e decine di milioni di europei a fronte dell’arrivo di poche centinaia di migliaia di profughi e alla pressione di altre frotte di aspiranti migranti è la cartina di tornasole di società che si scoprono fragili e indifese perché sembrano avere smarrito i fondamenti della loro stessa ragion d’essere, e si illudono che basti rinchiudersi in recinti ritenuti (a torto) invalicabili per affrontare la novità che la storia (costellata di orrori e di errori, anche delle potenze europee) ha portato dentro ai confini del nostro sempre più vecchio continente. Accade così che la secolarizzazione e l’individualismo che hanno reso anonime e solitarie città e metropoli si siano coniugati con un’identità sempre più debole e sempre più concepita come arma per difendere il territorio piuttosto che come risorsa per aprirsi all’incontro con l’altro, a partire dalle certezze che fondano l’esistenza personale e comunitaria. In Italia, dove pure si respira questa fragilità, e dove non manca chi cerca di 'arruolarla' politicamente, la convivenza con i migranti ha finora sostanzialmente tenuto grazie soprattutto a un tessuto sociale caratterizzato da esperienze diffuse di solidarietà, di vicinato e di accoglienza che appartengono al sentimento più profondo del nostro popolo, e che pescano in gran parte nell’eredità derivata da una ancora vitale tradizione cristiana. Ma questo non potrà reggere nel tempo se non verrà accompagnato da un lavoro di educazione, di riappropriazione delle nostre radici, secondo una logica ispirata a quella «cultura dell’incontro» che il Papa continua a indicare come la strada maestra per ridare un volto umano al pianeta. In questo senso l’accoglienza comunitaria dei richiedenti asilo che Francesco chiede a tutte le parrocchie e i conventi d’Europa è la proposta di una via sistematica ed esemplare. Una strada che soprattutto, ma non solo, nel nostro Paese è già stata battuta con umanità e con saggezza. Altrove c’è molto da fare, qui da noi c’è molto da non perdere e da continuare con speranza. Bisogna salvare il seme dell’umano per fecondare il terreno della convivenza.
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