domenica 29 settembre 2013
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Poggioreale è una parola che duole. Dire che sta nel mondo della giustizia ci fa vergogna, se nell’estate passata hanno ammassato 2.800 corpi nello spazio di 1.350. Disonora l’Italia come Paese che tortura i reclusi, come ha sentenziato la Corte europea dei diritti dell’uomo. Ci aveva dato tempo un anno per cessare il trattamento disumano, l’anno scade fra tre mesi. A Poggioreale il presidente Napolitano ha parlato di indulto e di amnistia.
Davanti a quella umanità tormentata, sofferente oltre misura, ha detto che scriverà queste parole in un messaggio al Parlamento. Lo ha detto in un contesto in cui nel Parlamento italiano si rischia ogni giorno lo stallo, si respira la minaccia di fine incombente, la conflittualità estenuante; ecco le larghe ostilità dentro l’involucro delle larghe intese. Ci vorrà sforzo, dunque. Sarà per l’imperativo “umano e morale”, o perché l’Europa ci fiata sul collo dopo la rampogna sferzante, ma l’indulto ci sta. Chiede coraggio, ma ci sta: riequilibra la storia della crudeltà presente, ripulisce la parola giustizia da una sua crosta deforme. Napolitano sa, e noi pure constatiamo, che la clemenza verso i dannati delle nostre carceri non ha gran seguito, e che a molti predicatori della «certezza della pena» (che non è un’idea balzana, ma neanche la chiave della cella buttata via) è parso virtuoso mettere all’angolo l’indulto e l’amnistia, coi lucchetti di una legge costituzionale che vuole una maggioranza di due terzi.
L’ultimo indulto risale al 2006, l’ultima amnistia addirittura al 1986. E tutti a dire che ci vogliono ragioni eccezionali, anche in senso politico eccetera, per usare clemenza. Bene, qualche ragione eccezionale, anche ulteriore rispetto a quelle umanitarie e a quelle del diritto di fronte all’Europa, forse c’è; e riguarda proprio la situazione politica. La congiuntura così tesa e aspra, l’orizzonte nero, i presagi inquieti, i sussulti e le fibrillazioni quotidiane, sono collegati in qualche modo alla situazione di una persona, condannata alla reclusione e alla interdizione dai pubblici uffici, che ha rivestito e riveste un ruolo politico di proscenio: Silvio Berlusconi. Attorno a questo perno che inceppa la dinamica degli schieramenti (fra partiti e fazioni c’è differenza) la giostra politica cigola e gira a singhiozzo, e il pensiero della spina staccata, del tavolo rovesciato, è il suo incubo quotidiano.
Ci vorrebbe la grazia, dice qualcuno, a sistemare le cose. Ma altri pensano che una clemenza singolare e così personalizzata avrebbe l’aria di demolire un giudicato specifico, raggiunto con tutte le garanzie processuali. E tuttavia non si può lasciare che la storia politica d’Italia resti più oltre in questa tagliola, e forse la soluzione acconcia sarebbe proprio la ricaduta indiretta di una misura generale, di cui esistono tutti gli altri presupposti sul versante dei reclusi. Dire se l’indulto sia una cosa giusta o sbagliata in sé è come chiedere se sia giusta o sbagliata la grazia. Il codice penale tratta l’uno e l’altra nello stesso articolo. Non è qualcosa che si merita, ma che si concede. Rincalza che una condanna c’è, ma la supera, la riduce o la commuta.
Oggi, se la sorte di un potente si mescola con l’angoscia di migliaia di umili, una clemenza doverosa verso gli ultimi scioglierebbe dal viluppo col primo la nostra stabilità politica. Se si guarda al futuro con mente sgombra, fuori da infuocate e contrapposte passioni, all’Italia giova oggi più di tutto avere la strada libera per riprendere il cammino, e con esso lo sviluppo. A volte occorre togliere i ceppi, pur appropriati, a ciò che ci inceppa; occorre liberare per liberarci. In fondo, mentre si ridimensiona la giustizia sui cenci, l’indulto potrebbe far capire a chi vestì il manto regale che è ora di levare il blocco, e andare in pace, con risparmio di pena, lasciando che l’Italia riprenda lena senza questo sovraccarico di angosce. Tempo per tutti, come dice Manzoni, di sgombrare «dall’ansia mente i terrestri ardori»e guardare più su, e più avanti.
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