mercoledì 15 aprile 2009
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Le polemiche sul disegno di legge che ha per oggetto le scelte di fine vita si sono negli ultimi giorni, e giu­stamente, placate: la tragedia abruz­zese ha riproposto alla riflessione di tutti una verità elementare e cioè che la vita non è un valore di cui si possa calcolare l’entità, ma è piuttosto il pre­supposto ( incalcolabile!) di ogni va­lore: è questo, e non altro, il motivo per cui ogni tentativo, anche il più ar­rischiato e improbabile, di salvare u­na singola vita umana appare intrin­secamente giustificato, senza se e sen­za ma, anzi assolutamente doveroso. Ora però che lentamente le vicende abruzzesi si stanno incanalando ver­so una loro pur sempre tragica, ma i­nevitabile normalizzazione, comin­ciano a riemergere le polemiche e i di­battiti sul disegno di legge Calabrò e sul destino che lo attende nel passag­gio a Montecitorio. È ormai sufficien­temente chiaro che il nodo del dibat­tito, vertendo essenzialmente sul principio di autodeterminazione, è più ideologico che bioetico: esso è di vitale importanza agli occhi di tutti coloro che, nutriti da una visione an­tropologica radicalmente individua-­listica, ritengono che il mancato rico­noscimento legislativo dell’autode­terminazione rappresenti una lacera­zione insanabile nel sistema dei dirit­ti umani. Si aggregano a costoro tutti coloro che confondendo ( purtroppo!) l’autode­terminazione ( ideologica) con la li­bertà ( morale) ritengono che le scel­te di fine vita vadano sempre « religio­samente » rispettate. Che poi queste scelte siano pressoché sempre del tut­to astratte ( come quelle affidate a te­stamenti biologici) o motivate da si­tuazioni di abbandono, di paura, di confusione, di mancata informazio­ne è un dato che infastidisce le « ani­me belle » dell’autodeterminazione e su cui esse non si soffermano mai. Eppure, basta aprire gli occhi e guar­darsi intorno per capire ciò che sta succedendo. Una riflessione bioetica, serena e non ideologica, sulle dichia­razioni anticipate di trattamento e sul diritto al rifiuto delle cure potrebbe­ro trovare significativi punti di con­vergenza, come quelli che ormai da tempo si sono trovati in merito all’ac­canimento terapeutico, oggi concor­demente rifiutato da tutti e che sono stati recepiti in diversi documenti del Comitato nazionale per la Bioetica. Ma per l’individualismo radicale che ormai caratterizza la cultura occiden­tale, riconoscere il diritto al rifiuto del­le cure non basta. Il principio dell’au­todeterminazione ha una sua intrin­seca forza espansiva: se posso auto­determinarmi nel dire di no a una te­rapia, perché non posso autodeter­minarmi nel dire sì al suicidio assisti­to? E perché la mia autodetermina­zione andrebbe riconosciuta valida solo in contesti patologici estremi e non in ogni qualsiasi situazione, in cui a mia discrezione io voglia porre fine alla mia vita? Non sono domande e­sagerate o provocatorie: se ne discu­te con tutta serietà in diversi Paesi eu­ropei, in particolare in Svizzera, da quando Ludwig Minnelli ha dichiara­to che « Dignitas » , l’organizzazione da lui fondata, ritiene che sia una « pos­sibilità meravigliosa » quella di aiuta­re le coppie che siano desiderose di « morire assieme » e quella di favorire la morte del partner sano di un mala­to terminale.È su pretese del genere, su un « pendio scivoloso » di questo ti­po che vorremmo che i fautori no­strani dell’autodeterminazione espri­messero un’opinione, non solo chia­ra, ma soprattutto motivata; che ci di­cessero perché le condividono ( se le condividono) e – se non le condivi­dono – come pensano, nel contesto di un’autodeterminazione rivendicata come diritto della persona, che le si possa rifiutare, esplicitamente e sen­za alcuna ambiguità.
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