venerdì 31 maggio 2013
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Bambino appena capace di memoria, ho fatto in tempo a vedere i combattimenti aerei sopra l’ultimo tratto della Linea Gotica. Mia nonna, che nella casa di campagna non poteva negare le uova fresche alla pattuglia settimanale della Wehrmacht, una volta respinse decisa la pretesa di avere una gallina: «Accontentatevi delle uova!». Io non avevo altrettanto coraggio: ricordo di essere passato piangente per mano a mia madre, i primi giorni di aprile del ’45, tra due file di baionette già pronte alla ritirata. Ho saputo molti anni dopo che il parroco di Ameglia (La Spezia) si era offerto come ostaggio al posto di una dozzina di civili appena rastrellati. Anche il parroco della Cattedrale di Sarzana si era sottratto con fatica agli agguati delle bande repubblichine e altri sei preti erano stati deportati per «simpatie verso i ribelli». Qualche anno fa, sull’Appennino con degli amici, vidi che al cippo a ricordo di un gruppo di partigiani era stata aggiunta la foto di un prete, insegnante di latino a Pontremoli, anch’egli fucilato. «Lo rivedo dopo cinquant’anni», esclamò un anziano del gruppo, che era stato suo allievo. In una delle mie comunità è stato parroco don Giovanni Bobbio. Era nato nel 1914 e gli uomini saliti in montagna, più giovani di lui, erano stati suoi allievi in Riviera. Sapeva che non tutti erano «buoni cristiani» e che, forse, non tutti sarebbero stati «disciplinati». Ma era suo compito assistere quella gioventù e lo fece, da prete e da parroco. Considerò suo dovere propiziare un incontro con gli emissari di una divisione fascista «confinante», ottenendo l’impegno di evitare spargimenti di sangue. Era sicuro di non dover temere per sé, essendosi comportato da vero 'uomo di pace'. Ma questo non valse ad evitargli l’accusa di «disfattismo» e l’arresto da parte di una squadra venuta da lontano. La fucilazione senza processo avvenne a Chiavari il 3 gennaio del ’45. Così don Giovanni Bobbio ha un posto nel volume Testimoni della Chiesa italiana (San Paolo 2006).Ma perché tante vicende che hanno coinvolto le popolazioni e i loro preti durante il periodo più duro del Secondo conflitto mondiale non hanno trovato posto nelle narrazioni ufficiali? Una prima ragione sta, credo, nella volontà di dimenticare un periodo doloroso con i suoi strascichi di vendette e divisioni. Poi il Quarantotto e la necessità di fermare il Partito Comunista che aveva egemonizzato la Resistenza. Ha influito pure, da parte dei preti, lo scrupolo di non vantare meriti ed eroismi al di sopra di quelli di tutto il popolo. Il popolo della parrocchia di don Bobbio, ad esempio, nei primi mesi del ’43 impedì la consegna delle campane alle autorità: i ragazzi fecero saltare l’unico ponte che permetteva di trasportarle. Gli amministratori delle terre comuni di un’altra parrocchia si fecero minacciare il 'confino', ma non consegnarono spontaneamente i boschi per la guerra e, nello stesso villaggio, al contadino che forniva il latte al parroco, l’unica vacca venne uccisa e lasciata marcire al sole di luglio del ’44.Ma è giusto che, consolidata la pace e le istituzioni, esercitata la misericordia e il perdono, la memoria sia recuperata intera. Un altro dei miei predecessori in montagna, che all’epoca ha rischiato molto, ricordava indignato un prete che piangeva dopo che gli era stato negato il permesso di assistere un condannato: «Non si chiede il permesso per fare il proprio dovere». Non hanno chiesto permessi don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudo, i due sacerdoti per i quali si è aperta ieri la fase diocesana del processo di beatificazione in virtù dell’eroico sacrificio compiuto a fianco dei loro parrocchiani. Le vittime civili di Boves (nel Cuneese) saranno ricordate con ancora maggior onore quando tutti sapranno che accanto alla loro vita e alla loro morte c’erano due pastori intrepidi e fedeli.
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