È stata una lezione di umanità. Non è andato a fare prediche, non è andato a proporre ricette. Si è inginocchiato davanti a
una realtà che l’aveva colpito «come una spina nel cuore». Ha gridato
il suo dolore, ha pregato, ha chiesto perdono, ha risvegliato le
coscienze. Il primo viaggio di papa Francesco, così carico di
significati simbolici, ha puntato dritto a una periferia che è insieme
geografica ed esistenziale: Lampedusa, estremo lembo meridionale
dell’Europa, capolinea e trampolino di tanti viaggi della speranza che
spesso annegano nella disperazione. Per la Messa celebrata in una
giornata luminosa come quelle che il Mediterraneo sa regalare in questi
giorni, ha scelto il viola, il colore della penitenza. Ha chiesto
perdono per l’indifferenza globalizzata, il tarlo che morde le menti e i
cuori di «coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno
creato situazioni che conducono a questi drammi», come di chi vive
accomodato in un benessere cieco che porta all’anestesia del cuore.
Francesco è stato maestro di umanità perché prima di spiegarci 'cosa
fare', ci ha testimoniato 'come stare' di fronte a quelle ventimila
invisibili bare che giacciono in fondo al mare e di fronte alle
moltitudini che partono dall’Africa sognando un destino migliore. Per
non diventare tutti 'innominati', responsabili senza nome e senza volto
di tragedie che si consumano sotto i nostri occhi – a volte sulla stessa
spiaggia dove prendiamo il sole – bisogna anzitutto 'stare', 'patire
con'. Troppo facile scaricare tutto il peso della questione-immigrazione
– uno dei nodi più difficili da sciogliere nell’era della
globalizzazione che ha aumentato le disuguaglianze e insieme le
possibilità di muoversi da un Paese all’altro – sulla politica, che pure
porta pesanti e irrimandabili responsabilità. Troppo facile esercitarsi
nel tiro al bersaglio sui presunti colpevoli. Oggi, come ai tempi di
Gesù, la questione fondamentale non è 'di chi è la colpa', ma 'come si
fa a vivere'. Come si fa a girare la testa dall’altra parte, a
chiamarsi fuori, ad accontentarsi del proprio tornaconto, quando il
dolore ti passa accanto? Come si fa a restare sordi di fonte alla
domanda che riecheggia dagli albori della storia umana: «Dov’è tuo
fratello?». E da chi possiamo imparare a 'stare' in questa posizione
umana? Il Papa ce lo ha indicato andando a incontrare il popolo di
Lampedusa. Di solito chi vive nelle terre di frontiera assume
istintivamente un atteggiamento di diffidenza, di paura, o di aperta
ostilità nei confronti dell’altro, di quanti arrivano da mondi lontani e
da altre culture. In questi anni i lampedusani con l’aiuto
spesso determinante di forze dell’ordine e marinai impegnati in
centinaia di operazioni di salvataggio in mare – hanno testimoniato
un’apertura e una capacità di accoglienza assai più forti delle loro
limitate disponibilità, assai più larghe di una 'normale' misura, e che
ha trovato espressione in un neologismo locale, o’ scià,
che letteralmente significa 'fiato mio' e indica il sentimento di chi
considera l’altro come qualcuno che gli è necessario. Come parte
inseparabile del proprio destino. Per questo il Papa ha salutato così i
lampedusani, i migranti che lo ascoltavano e tutti coloro ai quali
idealmente si è rivolto. Per questo ha abbracciato questa piccola
comunità che offre al mondo una grande testimonianza, indicandola a
tutti come faro di umanità nel mare dell’indifferenza. Ma per
cogliere appieno la lezione che arriva da questa indimenticabile
giornata, dobbiamo guardare al gesto che ne segna l’ideale coronamento:
l’affidamento alla Vergine di coloro che sono costretti a fuggire per
cercare futuro, la preghiera per tutti noi, distratti e prigionieri
delle nostre paure, e «per la conversione del cuore di quanti generano
guerra, odio e povertà, sfruttano i fratelli e fanno indegno commercio
della loro fragilità». La conversione dei trafficanti di uomini, più
decisiva di qualsiasi ferrea legge.
Più dei vari movimenti locali che si contendono il potere, a decidere del futuro politico di Damasco saranno le potenze che in passato hanno usato il Paese quale arena per combattersi a distanza
L’attuale sovraffollamento carcerario è la principale causa della disperazione che porta i detenuti a togliersi la vita. Per evitare che queste situazioni si ripetano servono misure strutturali
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