venerdì 1 aprile 2016
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E ntrare nella penombra di quella casa dalle spesse mura, fresca come rugiada, quando fuori un sole implacabile arroventava l’aria, era come fare un viaggio nel tempo. E poi, ma forse erano solo allucinazioni dovute alla spossatezza nel fisico, che facilmente si disidratava, nel silenzio di quel luogo, nella sua suggestiva atmosfera, pareva di captare delle voci e intravvedere aleggiare, in quella semioscurità, candide sembianze. Forse erano solo fantasmi creati dalla nostra fantasia che, in quella quiete, si andava a tuffare nella lontana storia di terre d’Oriente, di quel tempio, mentre tutt’attorno gli oggetti e le cose, gli antichi libri ricoperti da un leggero strato di polvere, e i giochi di luce, raccontavano del Tempo, quello con la T maiscuola, e di un un glorioso passato dell’uomo che edifica. Di una epopea missionaria cristiana, piccolo fiore in terra musulmana di una provincia tribale nel nord-ovest del Pakistan. Proprio nel cuore di quella casa, parrocchia e chiesa di san Michele, edificata attorno al 1850, col fango e la paglia, e nemmeno un mattone uno, dalla parete del caminetto, il grande legno d’ebano scuro con il Cristo crocifisso, captava l’attenzione, accanto a un antico bassorilievo di un Buddha nell’atto della preghiera e della meditazione, mentre di là dal muro troneggiava il minareto. Nel salotto, avvolti da un’armonica fratellanza di credi, il parroco ci dava il benvenuto con una tazza di tè, e amava raccontare dell’uomo semplice. Città di frontiera pakistana, Peshawar, e retroterra di guerra, luogo di rifugio, allora, come ai giorni nostri, per qualche milione di profughi afghani e poi punto di partenza obbligato per gli sconfinamenti clandestini dei media internazionali che mai avrebbero avuto riconosciuto un visto d’ingresso ufficiale per Kabul. In quella lontana primavera del 1988, la potente Armata rossa faceva le valigie e si preparava a chiudere, con una sconfitta che segnerà la fine stessa dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, l’avventura afghana, cominciata dieci anni prima e una ecatombe di morti e disabilita inutili. In quei lunghi mesi trascorsi a raccontare della guerra afghana, di ritorno dalle sortite al fronte, l’appuntamento con padre Leonardo Steger era un momento di ristoro. Aveva 47 anni, allora, padre Leonardo, originario di Valdaora. Partì dall’Alto Adige quando ne aveva 27, e a Peshawar, più di un milione e mezzo di musulmani, era uno dei novemila cristiani. Era tempo di ide kiamat al Masih, in lingua urdu, festa del Messia. La vigilia di Pasqua. «Jesu ji utha hai», con queste parole solcate da un leggero accento tedesco, quel lontano giorno, padre Leonardo ci salutò sapendoci di ritorno a casa: «'Cristo risorge', in questa terra dove c’è la morte. Dove ogni giorno Cristo è crocifisso, ma ogni giorno lo vediamo risorgere. Da noi, in ogni riflesso di vita quotidiana, possiamo leggere il significato della Pasqua, dell’uomo che vive soffrendo, nella solidarietà e umile pazienza». Padre Leonardo lo sappiamo ancora a offrire il suo servizio in quella «Terra dei puri», Pakistan. Una terra difficile, ancora ferita; radice e vittima stessa di un destino che oggi ci accomuna tutti nel pozzo dell’insicurezza globale di presunte fedi brandite come scimitarre. Buona Pasqua, padre Leonardo. Uomo semplice e paziente. © RIPRODUZIONE RISERVATA sulle strade del mondo
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