venerdì 13 maggio 2016
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Q uel pomeriggio di temporale tropicale, il piccolo «facchino del cielo», come una piuma schiaffeggiata dal vento, nel cielo in tempesta, arrancava sorvolando la grande foresta del Kivu meridionale, regione orientale dell’allora Zaire dei Grandi laghi. A bordo, i viaggiatori erano quattro, compreso il pilota. Era sabato, poco dopo l’ora di pranzo, quando il bimotore «Partenavia P 68B», spiccato il salto da una pista di terra battuta ai margini di uno sperduto villaggio africano, puntava dritto su Bukavu. Seicento chilometri più a nord, un volo di un paio d’ore. Routine. Allora era Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo. Grande quanto o forse più dell’Europa occidentale, in questa nazione africana, da quando è stato possibile, si è viaggiato quasi esclusivamente per via aerea, a bordo di traballanti e insicuri, sotto ogni profilo, «petit porteur », facchini del cielo. Viaggiare via terra era e resta un’odissea, un’estenuante safari. Anche settimane per coprire distanze di poca cosa, attraverso foreste e savane. Sobbalzando su piste scavate da fossati enormi e, nella stagione delle grandi piogge, muraglie di fango. Mentre nel caso di una malaugurata avaria, condannati a lunghe attese. Ma soprattutto ci sono da affrontare territori infestati da bande armate d’ogni risma. L’allarme si diffuse la sera, quando le missioni sparse un po’ ovunque si mettevano in contatto radio per rassicurarsi vicendevolmente. Venti anni fa non era una consuetudine convivere con un telefonino sempre acceso, sempre a portata di mano, e poi le notizie viaggiavano con la lentezza del tempo e con parsimonia di parole. Non restava che una ricetrasmittente e quell’altissima antenna metallica che spiccava dal tetto di paglia delle missioni cattoliche. Al suo gracchiare nell’etere era affidata la sorte di chi viveva sperduto nella foresta. L’appuntamento per tutti, come un orologio svizzero, scattava alle 20.00. Anche quella sera, con noi ospiti nella Domus della missione saveriana, la sede del superiore e casa di accoglienza, di Bujumbura, in Burundi, il padre missionario, accesa la radio, lasciò spazio alla voce dei confratelli lontani che, nel gergo delle onde radio, spesso spiate dai militari, venivano chiamati gli «alpini». Quella sera, improvvisamente, il cuore di tutti quasi smise di battere, quando una voce annunciò: «Padre Tumino non è arrivato a destinazione». I «Petit porteur» non mettevano allegria quando ci si doveva salire a bordo. Ma non c’era alternativa, se non salire a bordo facendosi il segno della Croce. Per tre giorni, la foresta aveva avvolto di mistero la sorte di quel volo e il destino dei suoi passeggeri. Poi, il 9 ottobre 1996, la notizia del ritrovamento la portava il capo di una piccola comunità. Aveva ritrovato l’aereo sfracellato contro una montagna, con i quattro passeggeri morti. Camminò per due giorni prima di arrivare alla missione più vicina. Padre Giovanni, dell’ordine dei saveriani, era nato a Ragusa e aveva 51 anni, i suoi resti mortali riposano alla periferia di Bukavu. La missione per lui era tutto. Aveva una preparazione in medicina generale, tropicale e ginecologia. E per questo non si dedicava solo alle anime, ma anche ai corpi malati delle persone dei villaggi sperduti. Che poteva raggiungere e curare solo salendo a bordo di un «petit porteur» schiaffeggiato dal vento. © RIPRODUZIONE RISERVATA sulle strade del mondo
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