lunedì 4 marzo 2013
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​Da tempo ormai conoscevamo tutto, il giorno e perfino l’ora: sarebbe accaduto il 28 febbraio, alle 20. Abbiamo avuto due settimane per arrivare pronti all’evento e infatti credevamo di esserlo. Invece c’era ancora qualcosa cui nessuno era preparato, qualcosa che non avevamo previsto: la chiusura del grande portone. Alle 20, quando già avevamo consumato (credevamo) tutte le nostre emozioni – il Papa che per l’ultima volta esce dal Vaticano, il pianto del suo autista, quel volo su Roma in elicottero per salutare ancora una volta l’Urbe e il mondo, il commiato dal balcone di Castel Gandolfo e alla fine quella finestra rimasta zitta e vuota – i due battenti di legno del Palazzo Apostolico si sono serrati. Dentro lui, fuori noi. Ultima immagine attraverso l’estremo spiraglio, il volto impassibile di una guardia svizzera. Ammutolita a un tratto la folla che fino a poco prima aveva urlato a gara con le campane a festa. Sguardi smarriti, in piazza come nelle case, tra chi era lì e chi seguiva dalle televisioni, perché il brivido era lo stesso per tutti: e adesso? C’è sempre un senso di ineluttabilità in una porta che si chiude, il presagio di qualcosa di irrimediabile, specie se chi ha varcato la soglia ci ha detto che non uscirà più. È come se un muro invalicabile fosse improvvisamente cresciuto e ci dicesse «mai più». Ricordo il giorno in cui mia sorella, oggi suora di clausura, varcò senza voltarsi indietro quella stessa soglia, e il silenzio in cui rimanemmo tutti al serrarsi dei battenti. Dentro lei, fuori noi. Ma così non è, ce l’ha predetto tante volte Benedetto XVI in queste due settimane di congedo: vi resterò accanto nella preghiera, ci aveva avvertiti, non vi lascio soli, pur nel silenzio e nel nascondimento io sarò sempre con voi e al servizio della Chiesa. Parole che avevamo ascoltato, accolto, amato, che ci avevano confortato e commosso, ma che abbiamo capito solo quando quel portone ci ha detto che il tempo era finito, che ora tutto si sarebbe avverato. Benedetto ce lo ha annunciato fino all’ultima occasione, due ore prima del futuro silenzio: «Sono sommo Pontefice della Chiesa cattolica fino alle otto di sera, poi non più. Ma vorrei ancora con il mio cuore, con la mia preghiera, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune della Chiesa e dell’umanità», ha detto prima di sparire forse per sempre alla nostra vista, ma solo a quella. Ci sono porte che si chiudono per spalancarsi al mondo, come ben sa chi entra per sua scelta e, varcata la soglia, comincia il grande viaggio («Voi sapete che questo mio giorno è diverso da quelli precedenti. Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio su questa terra»), mentre chi resta fuori fatica ad accettare, guarda a quei battenti come a una pietra tombale, piange e pensa sia finita. E invece no, ci soccorrono ancora una volta le parole dell’ormai Papa emerito, che la mattina rivolto ai cardinali aveva raccomandato la preghiera, «autentica gioia che nessuno ci può togliere», nemmeno un muro altissimo o la più gigantesca delle porte. Ai cardinali e a tutti noi ha chiesto di crederci, di saperlo. Di rimanere «uniti in questo mistero» che è la preghiera, certi che lui continuerà a farlo al nostro fianco. Noi piangiamo e lui ci parla di gioia. Noi di «mai più», lui di «per sempre». Questione di prospettive: tre ore prima, alle 17.08, all’annuncio del decollo dell’elicottero con il Papa a bordo, mentre a Roma si piangeva una partenza a Castel Gandolfo la folla scoppiava in un applauso che annunciava un arrivo. Come avviene con il Veliero di William Blake, che in piedi sulla spiaggia qualcuno vede salpare, ma su una riva lontana altri vedono apparire: «La sua scomparsa dalla mia vista è in me, non in lui – scrive il poeta. – E giusto nel momento in cui qualcuno vicino a me dice "è partito", ce ne sono altri che lo vedono apparire all’orizzonte, puntare verso di loro esclamando di gioia "Eccolo!"». Questo ci dice il portone che alle 20 ha sbarrato il nostro sguardo miope per aprirci l’orizzonte dove il «mai più», figlio della nostra umana limitatezza di voler vedere con gli occhi e toccare con mano, diventa il «per sempre» che travalica i sensi, i muri, le porte.
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