Oltre paralisi (e vendetta) con l'amnistia condizionata
mercoledì 27 maggio 2020

I temi della giustizia, della pena, del carcere, sono tornati in primo piano. E un lungo e articolato commento meriterebbero gli scritti apparsi su queste pagine di Mauro Palma, apprezzato Garante dei diritti dei detenuti, e di Maurizio Patriciello, protagonista di un impegno esemplare come parroco nella “terra dei fuochi” a sostegno dei più deboli tra gli umili: entrambi, pure in quest’occasione, al cuore di problemi tra i più lancinanti, di lunghissima data ma che la pandemia ha posto sotto gli occhi di tutti con particolare evidenza. Interventi apparentemente distanti, ma in realtà assai meno di quanto non possa sembrare a prima vista. Perché in ambedue c’è una partecipazione sofferta a situazioni drammatiche: per l’uno, all’angoscia di chi ha visto calare un pericolo gravissimo su uno stato di reclusione che, se persistente, può non consentire rimedi altrove usuali; per l’altro, all’indignazione di chi è stato colpito personalmente o negli affetti più cari da delitti orrendi e si sente come sbeffeggiato da certe scarcerazioni.

Certo, è sempre difficile il conciliare diritto alla salute e sicurezza collettiva. E più difficile ancora è il trovare una risposta giusta alle comprensibili richieste, da parte delle vittime o dei loro familiari, di una sanzione proporzionata al male commesso; una risposta che non sia necessariamente quella, crudamente “retributiva”, di una successione persino infinita di anni di prigione: non tutti possono essere un Giovanni Bachelet o una Sabina Rossa, che hanno cercato (e trovato) un dialogo positivo con gli assassini dei loro congiunti, senza vedere delusa la propria ansia di giustizia né dismettere o dimenticare la memoria dei propri cari dalla vita stroncata. È però importante che senza abbandonarsi a facili irenismi si continui a dialogare, nella speranza che qualcosa cambi nella mentalità comune e che le istituzioni agevolino, anziché ostacolare, i percorsi indubbiamente ardui di una giustizia non vendicativa ma autenticamente riparativa e ricostruttiva.

E c’è un terzo intervento a cui voglio riferirmi. È quello di Paolo Borgna, magistrato colto e tecnicamente tra i più preparati, ma anche dotato di grande sensibilità per i riflessi umani e sociali del suo lavoro. Sfidando la presumibile contrarietà dell’opinione pubblica per provvedimenti di clemenza a largo raggio, egli non esita a schierarsi in favore di un’amnistia: ovviamente, non estensibile a crimini come quelli di cui parla don Patriciello, ma pur tale da far fronte al prevedibile aumento del già cronico ingolfamento degli apparati di giustizia, che si dovrà scontare per il parziale stallo da Covid–19.

Non nascondo di essere stato a suo tempo convinto sostenitore dell’iniziativa che portò a innalzare, con la modifica dell’art. 79 della Costituzione e l’imposizione di un quorum parlamentare particolarmente alto, il livello di sbarramento per la concessione di amnistie e di indulti. Né rinnego quella mia posizione: si trattava, allora, di fermare la routine di periodiche concessioni che – a ogni segno premonitore – inducevano a dilazionare il più possibile il formarsi del giudicato, e consentendo anche di fruire di una piena e definitiva impunità. Parecchie cose da allora sono cambiate, e Borgna motivatamente lo sottolinea. Tra l’altro, dove prima si faceva leva sull’amnistia ha trovato maggiore spazio, e con effetti analoghi, la prescrizione del reato, la cui disciplina è tuttora alla ricerca di un ragionevole equilibrio, tra i tradizionali incentivi a un uso non meno spregiudicato di quest’altro strumento di impunità e i recenti furori abolizionisti a loro volta comunque inaccettabili. Borgna stesso enuncia le ragioni dell’amarezza che pure in lui suscita l’accettare un’amnistia. Tuttavia, a suo parere, il «costo di provocare oggi qualche piccola ingiustizia » servirebbe «a evitare, domani, più gravi e generali ingiustizie». Probabilmente ha ragione, e ce l’ha anche quando dice che sarebbe saggio cominciare a pensarci. Mi permetterei una sola chiosa. Se a un’amnistia si arriverà, non sia il frutto di indulgenzialismi senza contropartite. Il nostro ordinamento conosce l’istituto dell’amnistia condizionata: in particolare, si può imporre, come condizione, il risarcimento del danno recato alle vittime o a qualche prestazione sostitutiva che non rimanga soltanto sulla carta. È per strade del genere che si può rendere credibile una linea penitenziaria opposta a quella dei sostenitori del carcere come luogo in cui sfogare ferocemente le vendette private e collettive. Una linea, insomma, non diversa da quella che ispira le più ragionevoli politiche di sostituzione di una pena ciecamente detentiva con effettive ed efficaci misure alternative. È la linea – e così si torna al punto d’inizio – di chi lavora per far sì che il carcere non sia solo un luogo in cui “far marcire” qualcuno.

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