mercoledì 25 febbraio 2009
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La fase orale, in tutte le sue varianti simboliche, non è più il tratto ele­mentare del nostro approccio al mon­do. È un sogno a occhi aperti, un’icona dell’autorealizzazione, un orizzonte cul­turale vero e proprio. Quelli che lo sanno fare, avranno certa­mente calcolato anche questo. Il fattu­rato complessivo dei prodotti che so­stengono gli standard della sovralimen­tazione occidentale, sommato a quello di tutti gli altri prodotti che provvedono alla cura degli effetti indesiderati dei pri­mi, deve fare una bella cifra. Non so fa­re questo calcolo, ma mi pare evidente che la 'voracità' è ormai una categoria dello spirito, per noi, più ancora che un costume alimentare. Siamo o non siamo una 'civiltà' dei consumi? Una delle no­stre idee-guida, ossia il progetto di 'non farsi mancare niente', nel breve giro di qualche decennio ha fatto passi da gi­gante. Il primo fattore di umanizzazione che ci rimette è il linguaggio, una delle più belle qualità spirituali del nostro corpo. Le mamme esortavano, una volta: «Non si parla a bocca piena». Anche altre co­se ci raccomandavano, in verità, sem­pre sullo stesso registro: «Non ci si but­ta sul piatto», «Non ci si serve per primi», eccetera. Piccole cose del galateo, al­l’apparenza. Grandi passi verso l’uma­nizzazione, in realtà, se si pensa che la modulazione del nostro rapporto col ci­bo, fin dai primi sorrisi, è il mediatore fondamentale della catena simbolica di tutte le altre relazioni affettive e sociali. In ogni modo, con la bocca piena – e lo sguardo perso, e le mani sempre ad af­ferrare – non si parla. Si farfuglia, si e­mettono grugniti, ci si esprime a gesti, ci si spintona ammiccando. Non è que­stione di 'comunicare', come dice la parola più vacua e onnipotente della no­stra dissimulata impotenza a 'pensare'. È proprio il fatto che noi ci mangiamo anche le parole: e la nostra anima si a­trofizza, incapace di parlarsi e di parla­re con la libertà necessaria a cercare il confronto e il conforto su tutto ciò che – in noi e negli altri – non si mangia e non si beve, non si compra e non si vende. Il secondo fattore di umanizzazione che entra immediatamente in zona di peri­colo, quando siamo incapaci di rinun­ciare alla voracità, è l’insensibilità per tutto ciò che, fra gli umani, non ci por­ta cibo, saturazione, godimento, benes­sere servito e indisturbato. Il principio della distinzione della madre dalla tet­tarella, per cominciare. Diventiamo co­sì fisiologicamente irriconoscenti, in­grati, utilitaristici. E lo diventiamo, nor­malmente, abitualmente, anaffettiva­mente. Gli esseri umani si trasformano in 'risorse'. E se non lo sono, un in­gombro privo di senso. Milioni non han­no niente da mangiare (che vita è?). È spiacevole, certo. E anche noi a volte e­sageriamo, cosa che nuoce spesso alla salute e al fitness. Infine – ma qui non è il caso di dilungarsi: abbiamo orecchie per intendere, se vogliamo – perdiamo il dono più prezioso dell’umanizzazio­ne (e di quella che chiamiamo, orgo­gliosamente, civiltà dei diritti e della so­lidarietà). Perdiamo la facoltà di distin­guere il bene dal benessere, e il male dal malessere. E questo, più che un danno dell’umano, è il suo puro smarrimento. Il nichilismo fa le sue uova qui, e noi ce le beviamo. Ricordando l’autentica benedizione del digiuno, che scava in profondità nell’a­nima obesa dall’insensibilità a ogni a­more, Benedetto XVI cita nel suo mes­saggio per la Quaresima che inizia oggi una bella e audace esegesi del grande Basilio: «Il digiuno è stato ordinato in Paradiso». Riguardava l’albero del bene e del male, che non si mangia e non si beve, non si compera e non si vende. Eppure è lì, il paradiso. E si custodisce così, la creazione dell’uomo: quando scaviamo in noi stessi l’antidoto a ogni voracità distruttiva. E riconquistiamo leggerezza dell’anima per la benedizio­ne di Dio, che ci insegna a non consu­mare la terra – e noi stessi – invano.
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