venerdì 6 marzo 2009
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«Perché vuoi impedirmi di decidere per la mia vita? Tu sei libero di scegliere quello che vuoi, e perché io non posso farlo?». Sembra­no domande ingenue, ma lo sono solo in appa­renza. È con domande di questo tipo che è stata attivata in Italia, ormai da mesi e mesi, un’aspra battaglia politica, giuridica e morale. Si osservi: questa battaglia è abbastanza diversa da quelle che favorirono l’introduzione di leggi euta­nasiche, in Olanda prima, in Belgio e in Lussem­burgo poi. Nell’uno come negli altri casi a fonda­mento di tali leggi stava un antichissimo argo­mento: è giusto e umano dare una morte pietosa a pazienti terminali, colpiti da malattie tali da at­tivare terribili sofferenze. Se questa è la volontà del paziente, è giusto aiutarlo a morire serena­mente. Che si trattasse di un sofisma, lo dimostra la stessa esperienza olandese, che progressiva­mente ha allargato l’ambito di applicazione della normativa ai pazienti psichiatrici prima e ai mi­nori poi, a soggetti, cioè, palesemente incapaci di formulare un valido consenso. Ma, in linea di prin­cipio, resta il fatto che nel Benelux per accedere al­l’eutanasia legalizzata non basta che essa sia ri­chiesta dal malato: è necessario che questa prati­ca venga obiettivamente riconosciuta come 'pie­tosa', come l’unico modo di fronteggiare situa­zioni atroci. E qui si pone il primo paradosso: se ci si attesta su questa linea, i fautori dell’eutanasia dovreb­bero, per onestà intellettuale, riconoscere che or­mai «l’eutanasia è sorpassata». Questo era il fa­moso titolo di un articolo, apparso qualche an­no fa su Le Monde, in cui si denunciava in modo freddamente impeccabile come i progressi straordinari della medicina palliativa avessero svuotato di senso il presupposto stesso delle leg­gi a favore dell’eutanasia: infatti, per fortuna di tutti noi, non esistono più situazioni di dolori ter­minali che la medicina non sia in grado di ren­dere sopportabili. Il contesto del dibattito è però ormai definitiva­mente mutato. I fautori dell’eutanasia non fan­no più appello alla pietà, ma alla libertà. Siamo gli unici padroni della nostra vita e dobbiamo ri­vendicare il pieno diritto di disporre di essa. «Per­ché vuoi impedirmi di decidere per la mia vita? Tu sei libero di scegliere quello che vuoi, e per­ché io non posso farlo?». Ecco il sofisma. Come smascherarlo? Un tempo i giuristi avrebbero pazientemente spie­gato che esistono diritti e beni personalissimi e nello stesso tempo «indisponibili», quale appun­to la vita, ma non la vita soltanto: non posso di­sporre della mia libertà (vendendo, ad esempio, il mio voto) o dei miei ruoli familiari (non posso di­sporre dei miei «diritti coniugali» e della mia po­testà sui figli, trasferendola ad altri soggetti pur se consenzienti). Non posso disporre del mio corpo, vendendo il sangue o i miei organi al miglior offe­rente. Non posso disporre della mia cittadinanza, né posso usare la mia libertà per rinunciare a nes­suno dei miei diritti umani fondamentali. Agli oc­chi dei giuristi di un tempo, tutto questo sembra­va evidente. Oggi non più. Poter disporre insin­dacabilmente di sé: questo è lo slogan che emer­ge ormai con incredibile monotonia in tutti i di­battiti sull’eutanasia. È incredibile dover prende­re atto di come anche tanti giuristi si siano impa­droniti di tale slogan, nella più beata inconsape­volezza di cosa comporti accettarlo, e quasi esso possedesse una forza irresistibile. Lo slogan nasconde dunque un sofisma, infinite volte denunciato e infine volte riproposto. È legitti­mo, anzi prezioso, ogni esercizio di libertà che con­fermi o potenzi la mia identità. È invece illegittimo e vituperabile ogni esercizio di libertà che porti al­la negazione o all’umiliazione, in tutto o in parte, del­la mia identità. Vendere il voto è biasimevole, non perché possa fruttarmi un indebito lucro, ma per­ché vendendo il voto dimostro di non dare credito ai miei diritti di cittadino libero, consapevole e re­sponsabile. Se dispongo lucidamente, razional­mente, freddamente della mia vita, quindi non per amore dell’altro (ad esempio, per salvare la vita di una persona che si trova in mortale pericolo), ma per chiusura egocentrica nella mia soggettività, di­mostro la mia povertà umana ed esistenziale: in questo senso ogni suicidio (non indotto da malat­tia mentale) è prova di un tragico fallimento rela­zionale. Si dirà: ma non è questo il caso! Qui si par­la di autodeterminazione si parla di persone che soffrono e che per questo chiedono di morire. Ma allora, lasciamo cadere i sofismi: chi soffre va aiu­tato a sconfiggere la sua sofferenza, la sua dispera­zione, il senso di abbandono che lo pervade; va aiu­tato a vivere e non a morire. Nessuno, che non si tro­vi in stato di abbandono, sceglie liberamente la mor­te. L’eutanasia, l’uccisione pietosa, è sorpassata.
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