martedì 12 aprile 2016
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Non è l’Unione Europea, è il Consiglio d’Europa di Strasburgo (47 Stati che hanno firmato un trattato), anzi è un suo organo che si occupa dei "diritti sociali", un Comitato fatto di 14 esperti, quello che ieri ha parzialmente accolto il reclamo n. 91/2013 della Cgil relativo alla pratica applicazione delle norme italiane sull’obiezione di coscienza in materia di aborto. Lamentava, il sindacato, che per l’elevato livello dei medici obiettori, gli ospedali non riuscivano ad assicurare un «servizio d’aborto» adeguato e sufficiente, con pregiudizio per la salute delle donne che volevano abortire; e che la situazione penalizzava il lavoro dei medici non obiettori, discriminati e forzati. Sul primo punto il Comitato ha accolto il rilievo disfunzionale; non potendo ovviamente comprimere il diritto individuale all’obiezione di coscienza, sancito anche a livello internazionale, ha censurato l’insufficienza di misure compensative da parte degli organi regionali, con rischio per la salute delle donne richiedenti l’aborto. Sul secondo punto ha ravvisato che i medici non obiettori sono in una condizione lavorativa più pesante e gravosa rispetto agli obiettori; ma non sono «forzati». Altre lagnanze, come le cattive condizioni del lavoro in ambiente abortivo sono state respinte. Il documento del Comitato non ha di per sé effetti giuridici se non quello di porre sul tappeto il problema affrontato; sarà poi il Comitato dei ministri che potrà "raccomandare" misure specifiche tenendo presente la Carta sociale europea. A questo punto risulta evidente a tutti però che c’è un doppio livello, un doppio strato di temi, un doppio profilo. Quello che galleggia in superficie, con le forme giuridiche di una doglianza sulle condizioni lavorative, con l’aspetto d’una vertenza "sindacale", insomma, appare come il reclamo e il rifiuto di una condizione di lavoro penoso e pesante; ma il conflitto profondo è sull’aborto, persin maggiore del conflitto endogeno e della singolare ostilità non verso il "padrone" ma verso i compagni di lavoro che preferiscono far nascere bambini in sala parto, e non farne morire nessuno per aborto. Se sono questi, per gli ideologi abortisti e per i loro fedeli scudieri nel sistema mediatico, i nemici della salute pubblica e gli scansafatiche che lasciano agli altri i lavori forzati; se pensano che l’equità sindacale chiede di smetterla con l’obiezione, si sbagliano di grosso, in diritto e in fatto.In diritto, perché questa libertà, vincolata alla coscienza etica da un nodo più forte d’ogni decreto o minaccia, sta nelle fonti primarie dei diritti umani insopprimibili, e nelle Carte alle quali la civiltà umana è approdata. In fatto, perché la trasformazione bugiarda di un dolore e di una tragedia del mondo delle donne e degli uomini in un 'diritto' che chiede una collaborazione di morte è la negazione del diritto stesso come solidarietà umana nel bene. Il traguardo della salute è la protezione della vita. E per l’efficienza sanitaria abbiamo un daffare infinito, su tutti i fronti. Ma quale rincorsa all’efficienza è preferibile, prioritaria, giusta e umana, nel nostro sistema sanitario: le cure salvavita o la macchina della morte?
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