giovedì 19 marzo 2009
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Qualche tempo fa Maurizio Ferrera rilevava su un quotidiano nazionale che il sistema di protezione sociale italiano si regge sulla famiglia. Mentre in Europa è lo Stato che si fa carico di mantenere il reddito in caso di bisogno, in Italia se perdi il lavoro o se hai bisogno di un prestito è la famiglia che interviene. Questa sovra-responsabilità della famiglia – ammonisce Ferrera – rischia di far scattare 'trappole' che caratterizzano il familismo italiano: ad esempio una divisione del lavoro domestico e di cura che penalizza le donne e la mancata autonomia dei giovani dal nido familiare. Ferrera auspica un potenziamento del welfare pubblico per alleggerire i carichi della famiglia. La distribuzione della nostra spesa sociale, prevalentemente dedicata alle pensioni, impedisce questo, ma «senza incisive riforme – conclude lo studioso – gli squilibri generazionali (e quelli di genere) sono destinati ad aumentare, aprendo nuove e preoccupanti prospettive di declino». Al di là del termine familismo, che ha fatalmente nervature negative, ci associamo a Ferrera, ma rincarando la dose e aprendo una prospettiva di discussione. Rincariamo la dose: da noi non solo la quota di spesa sociale rispetto al Pil destinata alle pensioni e anziani è tra le più alte d’Europa (13%), ma la percentuale assegnata alle famiglie è la più bassa (insieme alla Spagna): 1,1% contro il 3,8 della Danimarca, il 3,2 della Germania o il 2,8 della Francia. Se la famiglia danese riceve ogni anno 1.500 euro di trasferimenti pro capite, in Italia dobbiamo accontentarci di 300 euro! In compenso, le famiglie con figli triplicano il rischio di povertà. L’incidenza della povertà in Italia è dell’11% (2006), ma sale al 17,2% per le famiglie con due figli minori e al 30% se hai la 'sfortuna' di avere tre figli. Gli aiuti che la famiglia riceve sono sempre nella logica della riparazione (assegni familiari, perché avere i figli è un problema), non dell’investimento pubblico (detrazioni e deduzioni, perché avere dei figli è un bene di tutti). Sappiamo che il quoziente familiare è considerato oggi impossibile per ragioni di finanza pubblica. Ma rimangono paradossi che meriterebbero di meditare un’azione simbolica di protesta: se hai figli e ti separi puoi godere di agevolazioni fiscali che non avresti se rimani sposato. In Germania una sentenza della corte costituzionale del 1992 ha stabilito che la quota di reddito familiare destinata al mantenimento in vita dei figli non può essere computata nel reddito lordo. Se la famiglia è riconosciuta dalla Costituzione come centrale per la vita dello Stato – argomenta la corte – non si capisce perché il crearla non debba essere considerato un investimento pubblico. Da noi avere figli resta un affare privato; considerato da ricchi o da incoscienti. Ed ecco il punto sul quale ci piacerebbe aprire la discussione. Non soltanto più welfare pubblico-statale per sgravare le famiglie, ma soprattutto un welfare nuovo, costruito insieme alle famiglie. Sono un contributo pubblico, non un affare privato. Esse sono soggetto, non solo oggetto dell’assistenza. Proprio la fantasia, le risorse, le relazioni di cui le famiglie sono capaci vanno considerate come parte centrale della soluzione del problema. Aiutate, iniziando dall’aiuto ad esistere, e accompagnate. Ma non come carità di Stato, bensì come investimento. Le soluzioni che la famiglia (anche in associazioni) produce, siano riconosciute pienamente (e fiscalmente) ed essa non sia lasciata sola, ma il pubblico garantisca il necessario accompagnamento professionale. La prima delle 'incisive' riforme giustamente auspicate da Maurizio Ferrera è forse anche l’accompagnamento alla famiglia in questo ruolo decisivo e il passaggio della politica famigliare da spesa a investimento sociale.
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