giovedì 13 giugno 2013
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Discorso alto, ieri, del senatore Mario Mauro, ministro della Difesa, in commemorazione del capitano La Rosa, vittima di un attentato in Afghanistan. Uno di quei discorsi che onorano una legislatura, perché fanno appello al senso profondo di fraternità, che deve unire tutti i membri di un popolo, quando quel popolo percorre una strada imposta dalla storia e su quella strada un suo figlio cade. Tutti gli altri figli devono fermarsi, raccogliersi intorno al caduto, salutarlo per l’ultima volta, e ascoltare la storia della sua vita, per incamerarla nella memoria e conservarla per sempre. Coloro che si salvano, in un’imboscata, si salvano perché colui che cade fa da scudo. «Due dei nostri sono morti, per venirti a salvare», dicono i marines al soldato Ryan. «È vero? – chiede Ryan al capitano – e come si chiamavano?». Ascolta i loro nomi, e chinando la testa li ripete dentro di sé, annuendo. Ora lui è lui più quei nomi che ha sentito.Quando parlava, ieri, il ministro della Difesa, era lui, più il capitano La Rosa, più coloro a cui il capitano ha fatto da scudo, nell’abitacolo del blindato, più noi tutti, perché una democrazia che approva una missione armata all’estero riconosce quella missione come funzionale alla propria sicurezza. Abbiamo sempre detto che combattiamo il terrorismo e difendiamo la gente che vuol vivere in pace là perché la battaglia non venga qua. Se noi non potevamo essere nel Parlamento, ad ascoltare il ministro della Difesa, dovevano esserci i nostri rappresentanti, i nostri eletti. Ma ecco il punto: non c’erano. Non c’era quasi nessuno. L’aula era desolatamente vuota. Il ministro parlava, dritto in piedi, e guardandosi in giro vedeva il nulla. Quel vuoto, quei seggi abbandonati, smentivano quel che lui diceva.Lui parlava di «presa di coscienza», i vuoti rispondevano che la coscienza dei parlamentari non provava interesse alla vicenda. Il ministro chiedeva che il Parlamento ascoltasse «nella sua integrità», il Parlamento, nella sua integrità, aveva deciso di andarsene per i fatti suoi. Il ministro sosteneva che bisogna guardare a questa nuova vittima «se vogliamo comprendere il nostro compito, il senso della nostra missione», e il Parlamento, assentandosi in blocco, mostrava che lui ha un’altra missione, più urgente e importante, che non quella di onorare un caduto.«Ringrazio di cuore i deputati presenti», ha esclamato il ministro, e veniva voglia di interromperlo: li ringrazia? e perché? Venire era il loro dovere, venendo fanno ciò per cui sono stati eletti e per cui sono pagati. Mi correggo: ciò per cui avevano chiesto di essere eletti, e quelli che non si sono presentati hanno rotto questo patto, hanno fatto delle promesse che adesso non mantengono. Il sospetto, sgradevole a sentirlo e più sgradevole ancora a esprimerlo, è che questo assenteismo di massa riveli il "vero sentire" dei parlamentari riguardo alle tragedie come questa. Le spiegazioni di queste tragedie richiamano agli «impegni assunti», alla «fedeltà alla Comunità internazionale», al dovere di «consolidare la piena ed efficace autonomia» dello Stato ospite. Il fuggi-fuggi dei parlamentari rivela che per loro queste sono parole vuole. Pensiamo sempre che noi, noi popolo, viviamo nella meschina vita di tutti i giorni, fatta d’impegni miserabili e difficoltà pratiche di ogni genere, mentre i parlamentari vivono nella storia, dove la vita degli uomini s’innalza e diventa durata, decenni o secoli. Non è vero. Con ogni probabilità i parlamentari che ieri non erano in Parlamento, erano occupati nei loro affari privati, più miseri dei nostri, perché non si battono con le nostre difficoltà.Ma non c’è un modo per impedire che i parlamentari si assentino dal Parlamento, che è il loro posto di lavoro? A occhio e croce, ieri era assente il 90%. Poniamo che il Parlamento sia un’azienda (lo è, in effetti: un’azienda che produce leggi). Cosa fa un’azienda, se il 90% dei lavoratori non lavora? Fallisce. Il Parlamento vuoto, con i deputati assenti senza giustificazione, dava, ieri, un senso di fallimento.
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