martedì 24 novembre 2009
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Sì, questa volta lo Stato corre davvero il rischio di giocarsi la faccia. La vicenda è nota: un emendamento governativo alla Finanziaria, approvato dal Senato, rende possibile mettere all’asta gli immobili confiscati alla mafia. Si stabilisce, infatti, un termine di 90 giorni, centottanta nei casi più complessi, perché l’Agenzia del demanio assegni agli enti locali gli immobili requisiti. Se questo termine scade, ecco avviata la procedura dell’asta. Poiché i tempi di destinazione degli immobili sono già oggi molto più lunghi di tre mesi e le procedure farraginose, è purtroppo facile immaginare che ben presto un gran numero di questi beni sottratti ai patrimoni mafiosi finirà all’incanto. Con il serio pericolo che a tornare in possesso di quei beni possano essere proprio i mafiosi, attraverso i prestanome (che al Sud, e non solo, non mancano mai). Anche perché, ci si chiede, chi mai avrà il coraggio di andare a contendere un bene mafioso messo all’asta, sapendo che c’è un qualche interesse del capobastone locale? E poi, chi in Italia ha tanto denaro liquido da investire in zone "problematiche"? A tutto questo va aggiunto che si fa fatica ad argomentare una qualche opposizione alla scelta dei senatori che dovrà essere confermata alla Camera, sapendo che i fondi ricavati dalle aste andrebbero destinati proprio alle forze di polizia e alla macchina della Giustizia che ne hanno un gran bisogno. Ecco perché, se diciamo la nostra, non è per criticare aprioristicamente una scelta dettata anche da pressanti esigenze di bilancio che dovranno pur essere soddisfatte, quanto per chiamare alla riflessione più attenta e soprattutto per ricordare a tutti noi, cittadini, come si porrebbe questa novità rispetto alla Legge Rognoni-La Torre che per prima ha aggredito i patrimoni mafiosi. Una legge vecchia di 27 anni, ma "rivisitata" nel 1996 con una grande iniziativa di popolo, tale cioè da saldare il rapporto fra Stato e cittadini nella lotta alle mafie che infestano il Paese e che continuano a distendere i propri tentacoli. Ricordiamo, solo per scrupolo, che le organizzazioni malavitose sono cresciute e si sono arricchite a dismisura con le droghe, e che hanno crescenti problemi ad allocare le ingenti risorse finanziarie accumulate. E le aste, per la "mafia finanziarizzata", sarebbero oggettivamente un’ottima occasione. Con la scelta della vendita all’incanto dei beni mafiosi si rischia, insomma, di rompere un patto virtuoso sottoscritto fra lo Stato e i cittadini. Un patto che, in nome del comune impegno contro le mafie, prevedeva che i beni confiscati tornassero al servizio del territorio, con la loro trasformazione in scuole, comunità di recupero, case per anziani, strutture di formazione. Ma anche sedi istituzionali o di pubblica sicurezza. Giusto quanto serve per dare fiducia a quelle generazioni di giovani (e meno giovani) meridionali che hanno il fiato delle mafie sul collo, ma non si arrendono e, soprattutto, non si lasciano "arruolare" nelle schiere della manovalanza criminale. Quel patto, ora a rischio d’essere incrinato, mette in fuorigioco le organizzazioni malavitose e le costringe a masticare amaro. Che smacco per il capomafia vedere, nella "sua" villa, installarsi una scuola professionale. Roba forte, che forse avrebbe strappato un sorriso contento anche a uomini come Leonardo Sciascia, se solo avesse potuto vederlo. Tutto questo non può essere compromesso, per il bene della società civile meridionale e per la sua tenuta nella lotta alle cosche. Talvolta un piccolo gesto, anche ben motivato socialmente, può avere effetti disastrosi e vanificare, in un attimo, la costruzione di un sentire condiviso. Non consentiamo, lo chiediamo sommessamente a chi ha le chiavi di questa operazione, che il sogno si trasformi in incubo. Pensateci: guai a dare occasioni di rivalsa ai mafiosi. Loro hanno soldi e violenza, e vogliono terrorizzare gli onesti. Davvero lo Stato ha bisogno dell’elemosina delle mafie?
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