martedì 20 ottobre 2009
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Se si prende alla lettera quel che l’Agenzia del farmaco (Aifa) detta nei suoi comunicati sul sempre più imminente ingresso ufficiale della Ru486 negli ospedali italiani – e sono parole impegnative – sembra non esserci nulla da temere. Ancora ieri, mentre confermava che per il completamento dell’iter burocratico manca solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale tra un mese, l’organismo tecnico cui spetta il via libera confermava che «sono state disposte restrizioni importanti», e che non c’è alcun rischio né di «banalizzazione dell’aborto» né di «impiego come metodo contraccettivo».Data la delicatezza della materia (la stessa Aifa sostiene di condividere «le preoccupazioni di carattere etico»), non possiamo che prendere sul serio queste affermazioni. Se nel comunicato del 30 luglio, per spiegare il suo primo sì all’aborto chimico, l’Agenzia sillabava che «deve essere garantito il ricovero in una struttura sanitaria, così come previsto dall’articolo 8 della legge 194, dal momento dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza», non c’è motivo di dubitare che intendesse esattamente questo: la donna che chiede l’aborto con la Ru486 deve sapere che resterà in ospedale dai 3 ai 15 giorni, in alcuni casi anche di più, e questo esclusivamente per garantire la sua salute, ovvero il bene che tutti – sinistra, radicali e femministe in testa – dicono di voler tutelare senza se e senza ma. Tutti siamo infatti consapevoli che l’aborto con la pillola compiuto a domicilio, nella solitudine della toilette di casa, dell’ufficio o di un treno, oltre che un rischio è una vergogna non degna di un Paese che ha rispetto per le donne. Purtroppo però le garanzie promesse dall’Aifa sembrano declamate per restare sulla carta: parlare di «restrizioni importanti» senza dettarle con meticolosa precisione – parliamo di un abortivo, non di un colluttorio – fa pensare che si dica una cosa pensandone un’altra. Quale altra? Quello che poi si spiega nel comunicato di ieri quando si demandano alle Regioni «le disposizioni per il corretto percorso di utilizzo clinico del farmaco». Che è come dire che ognuno si arrangia da sé, in una sorta di federalismo abortivo che contraddice pesantemente le garanzie sbandierate a piena voce. Le dichiarazioni di principio dicono una cosa, mentre si sa bene che la realtà ne dirà un’altra, e in parte la sta già dicendo: è vero o no che una Regione – l’Emilia Romagna, con i suoi ispiratori politici – ha già fatto cadere ogni velo di ipocrisia varando un protocollo che prevede l’aborto chimico in day hospital? Non si sa bene quali «restrizioni importanti» riscontri l’Aifa in una simile procedura, a loro ben nota (l’assessore regionale è membro del Consiglio d’amministrazione dell’Agenzia dal quale escono gli ispiratissimi comunicati). Al presidente dell’Aifa Sergio Pecorelli e al direttore generale Guido Rasi, responsabili primi di questo squarcio dal quale sta entrando in Italia l’aborto domiciliare, chiediamo se sembra serio loro continuare a giocare con le parole, e con la vita umana più fragile.
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