Non ci serve una «piramide» per andare oltre Covid
domenica 6 dicembre 2020

Tempi sempre più stretti per il Piano sui fondi Ue, ma s’impone coralità Nella ridda di notizie da Covid-19 che ci sommerge, sta ricevendo per forza di cose meno attenzione del necessario un capitolo non meno foriero di conseguenze per il futuro: la messa a punto del Recovery plan, premessa per tradurre in azioni concrete i famosi 209 miliardi del programma Next Generation Eu.

Spartiacque fra l’occasione per risollevarsi dalla cronica tendenza a una crescita asfittica e, se mal impiegati, un’ulteriore zavorra che legherebbe ancor più mani e piedi alle generazioni future. Il governo Conte II arriva a questo passaggio cruciale nel momento forse di maggior debolezza: per domani è annunciato un Cdm che dovrà varare il sistema di gestione del piano nazionale, ma il rumore di fondo (anzi, il frastuono) è già quello di mercoledì, quando in Parlamento si voterà sulla riforma del Mes.

Gli occhi dell’Europa sono su di noi: assieme a Spagna e Francia, l’Italia è fra i Paesi che riceverà più fondi dall’Ue. Il capo del governo ha ammesso di recente che siamo solo «un po’ in ritardo» sul Piano di rilancio, ma a ben vedere non è nemmeno questo il problema, se si pensa che il varo finale è ancora bloccato da Ungheria e Polonia e che i primi soldi difficilmente arriveranno prima di metà 2021. Il punto è: come si sta preparando un’occasione così storica? Pur con la comprensione per un esecutivo che, nel frattempo, deve far fronte a una pandemia devastante, è difficile negare che finora il processo è stato opaco. «Le differenti vedute non sono su chi deve comandare, ma su quale è la struttura più efficiente per il Paese, non pensate sia semplice…», ha detto Conte. Proprio per questo, tuttavia, i lunghi mesi trascorsi avrebbero richiesto più trasparenza, che d’altronde dovrebbe stare a cuore ai 5 stelle.

Ai primi di luglio si pensava - e venne scritto anche su queste colonne - che tutto il Paese sarebbe stato coinvolto per predisporre piani e progetti. Che ne è stato di questo tempo? Da quel poco che si sa, i 557 progetti di partenza (spesso ripescati da idee già giacenti nei Ministeri, a partire dalla doverosa - Alta velocità fra Napoli e Bari) sarebbero già stati scremati a circa 60, mentre si pensava a delineare una prima struttura di governance 'a piramide': un livello politico composto da Conte stesso e dai ministri Gualtieri (Economia), Patuanelli (Sviluppo) e Amendola (per i rapporti con Bruxelles); un comitato di 6 super-manager, con funzioni anche sostitutive nel caso di ritardi dei progetti; e una mega taskforce di 300 esperti, giustificati forse dagli 'appetiti' di tanti, innanzitutto dentro i partiti.

Una struttura accolta con non poche perplessità, tanto che Conte ora starebbe tornando sui suoi passi. Un buon segno, questo, perché il primo schema diverge dagli esempi dei principali partner Ue (in Spagna e Francia si è deciso di accentrare molto ai ministeri dell’Economia, limitando al minimo gli apporti esterni) e rischia di seminare altre mine temporali: per la selezione di manager ed esperti si dovrebbe ricorrere a gare pubbliche, che finirebbero col richiedere almeno 3-4 mesi. Altro, per ora, non si sa. Si è detto, a esempio, che i progetti sono già «in fase avanzata di studio» (parole di Conte), ma nessuno ha spiegato da parte di chi e sulla base di quali criteri. E si è motivato tanto riserbo con la «necessaria riservatezza».

Forse comprensibile per non trasformare questa fase in un mercato di 'portatori d’interessi', ma che cozza con l’attesa di un Piano vissuto come fermento collettivo e come seria operazione di ascolto del mondo delle imprese, del lavoro e del sociale (ben più corposa degli Stati generali di Villa Pamphili) per porre le basi della rinascita. C’è, poi, e per principio, da coinvolgere in Parlamento la stessa opposizione politica (se ha davvero voglia di collaborare), tanto più se si ricorda che l’erogazione dei fondi andrà avanti fino al 2026 e, quindi, coinvolgerà un’altra legislatura e potenzialmente altri decisori. E questo anche se è ovvio che le scelte, alla fine, spettano a coloro che oggi portano la responsabilità di governo.

Due limiti sopra tutti appaiono da evitare: un eccesso di centralizzazione a Palazzo Chigi (cui spetta invece il solo coordinamento) e un’interazione non efficiente con le pubbliche ammini-strazioni, Mef in primis, che da un lato sono già oberate da un mega-lavoro (per dire: mancano ancora circa 70 decreti attuativi del 'dl Rilancio' di primavera) e dall’altro sarebbero mortificate dall’esclusivo ricorso ad 'esterni' nella fase cruciale. Pure qui serve un giusto mezzo. Per rimediare, preservando il bene primario della stabilità che ci chiede anche l’Ue, si fa ancora a tempo.

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