martedì 22 ottobre 2013
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​Non si fa a tempo a distogliere lo sguardo dall’ultima crisi o dall’ultimo scandalo, che esaspera gli animi e blocca l’attività politica, che un altro ne appare all’orizzonte. E così si procede con un andamento sussultorio da una crisi all’altra, sperando di resistere. Ma resistere a che cosa e fino a quando? Resistere in vista della ripresa dell’economia e dei "mercati", di cui si parla; o rispetto all’impoverimento delle famiglie; o davanti alla crisi dei valori della convivenza collettiva? Non sono poche le voci che sostengono che «Resistere non serve a niente», come titola un recente best-seller della letteratura contemporanea. E che la morsa determinata dalla congiunzione di due forze diverse, ma ambedue distruttive – la sregolata finanza internazionale da un lato (che strumentalizza tutto per fini di profitto), e la mancanza di etica, dall’altro (che genera malcostume diffuso) – è talmente schiacciante, da non promettere nulla di positivo nonostante, appunto, la resistenza.

In realtà, sarebbe auspicabile che, a dispetto del pessimismo di molti, si trovasse l’energia positiva necessaria per ragionare con serenità sugli errori commessi e sugli obiettivi da realizzare. E la riflessione dovrebbe prendere le mosse dalle trasformazioni che hanno cambiato radicalmente lo scenario a partire dagli anni 90, senza trovare risposte adeguate. Gli ultimi 20 anni sono stati per l’Italia, e per tutto l’Occidente, anni nei quali avremmo dovuto rispondere con adeguamenti e riforme all’altezza delle sfide. Si è realizzata la rivoluzione tecnologica della modernità, preparata nei laboratori e negli scantinati negli anni precedenti, e ora a diffusione planetaria sempre più capillare: internet è diventato strumento insostituibile di comunicazione e lavoro; i telefoni cellulari hanno superato sin dal 1998 la telefonia fissa; l’informatica ha determinato ed accelerato la trasformazione dell’offerta commerciale di beni e servizi – a partire dai viaggi – e anche la finanziarizzazione dei risparmi a tutti i livelli, famiglie comprese. Si è andata perdendo la percezione del limite temporale della vita e dell’attività umana.

Ma gli ultimi 20 anni sono anche anni di accentuazione dell’invecchiamento drastico della popolazione, che contribuisce allo sviluppo di una nuova cultura collettiva del benessere e del consumismo salutistico spinto, per contrastare i mali della vecchiaia. Un processo che pone radicalmente in crisi la concezione stessa di benessere e di felicità. E sono anche anni in cui esplode la cosiddetta società dell’immagine. Il fenomeno delle "veline" compare a metà anni 90 nella televisione commerciale, e contribuisce a mutare radicalmente la dimensione emozionale dell’esistenza. La cosiddetta globalizzazione si consolida nelle nostre vite, a partire dai 27mila albanesi che sbarcano in una notte a Brindisi nel 1991, passando per gli accordi di Maastricht del 1992, fino all’introduzione dell’euro nel 2002. Si perdono, con i vecchi punti di riferimento, i confini spaziali dell’umanità. Soprattutto, però, gli ultimi 20 anni sono quelli in cui la forbice tra poveri e ricchi comincia ad allargarsi in maniera patologica. È la fine della grande inclusione sociale propria dell’Italia del dopoguerra. L’elenco dei cambiamenti potrebbe continuare. A interessarci qui è che a fronte di ciò si registra il mancato adeguamento dei meccanismi democratici di rappresentanza e di governo, cioè la mancanza di riforme adeguate. Come se il mito della autodeterminazione potesse bastare, come se non ci fosse bisogno di un nuovo sforzo di coniugazione tra evoluzione del mercato e princìpi etici necessari per regolare la convivenza collettiva: primo fra tutti i meccanismi di governance, nella politica come nel lavoro, nelle relazioni sindacali come nel governo di impresa; e poi nella promozione e tutela della mobilità, nell’educazione e nella formazione continua; in sostanza nella ricerca di un modello sociale diverso da quello da qualcuno definito «anarchico conflittuale», tipico dei Paesi mediterranei. Sussidiarietà, fiducia, federalismo solidale, cooperazione, tutti elementi ancora vivi nel quadro intimo dei valori percepiti da molti individui e gruppi sociali, ma largamente assenti nelle regole collettive e nelle relazioni pubbliche, non possono che discendere da una decisa azione riformatrice proprio sui punti di maggiore attrito. Siamo in ritardo, ma è ancora possibile farlo. Resistere non basta, meno che mai adesso. E resistere e basta a riforme calibrate con saggezza sarebbe autolesionista.

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