martedì 25 settembre 2012
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La «forte salita» è tutt’altro che terminata, ma disponiamo delle risorse per scollinare. Energie morali già all’opera, minacciate però da chi sposta l’attenzione su ciò che finisce per essere fuorviante: un’anti-soluzione, ingannevole e deludente. A ricordare su quali forze possiamo realmente contare per reggere l’urto di una crisi interminabile e venirne fuori è ancora una volta la Chiesa, che non si stanca di incoraggiare i giovani – risorse preziose, ridotte a "vasi di coccio" tra gli urti della crisi –, le bistrattatissime famiglie, oggetto di fraintendimenti e omissioni, e il laicato cattolico, per il quale è giunto il tempo di un nuovo e consapevole impegno.Quando lo sguardo sull’Italia è quello di una speranza carica di ottimismo cristiano, come nella prolusione con la quale il cardinale Angelo Bagnasco ha aperto ieri l’ultima riunione dell’anno del Consiglio permanente Cei, allora la prospettiva cambia radicalmente rispetto alla diffusa – e comprensibile – ansia per un futuro ancora nebuloso. Nelle considerazioni che il il cardinale presidente consegna in questa sessione autunnale si respira un’aria di fondata fiducia, di riscatto possibile, persino di chance da cogliere dentro una visione comunque realistica. Non c’è ottimismo a buon mercato, ma una semplice proposta: guardiamoci allo specchio liberandoci da molti e diffusi filtri deformanti, ed è probabile che ritroveremo il volto di un Paese vivo, di un popolo che «tiene, resiste» e non ne vuole sapere di soccombere alla «cappa di sfiducia» cui tende a consegnarlo la difficoltà a «maturare una prospettiva adeguata, un respiro lungo». L’Italia sta in piedi nella tempesta anche grazie alle profonde radici che ne hanno fatto «per secoli» un «modello di civiltà decisivo per i destini del mondo». Tutti sono affaticati, tanti anche smarriti. Ma la Chiesa è lì a ricordarci la nostra vera fisionomia, proprio mentre invita tutti a varcare la «porta della fede» ormai all’inizio di un Anno «benedetto da circostanze realmente speciali». Credere genera speranza, materia prima indispensabile della "ripresa", dell’attraversamento del deserto della grande crisi. E il cristianesimo può mostrare – oggi più di prima – «di essere esperienza non di regresso, ma propulsiva», orientamento esistenziale che coglie in questo momento altrimenti indecifrabile «l’ora di una solidarietà lungimirante» e la necessità di «stringere i ranghi per amore al Paese». Finché l’Italia resta agganciata all’«umanesimo sociale che è la cifra della nostra cultura», la rassegnazione non avrà la meglio, persino di fronte al nuovo tracimare di avvilenti «corruttele» in istituzioni di governo che c’eravamo illusi fossero accanto ai cittadini, sul territorio.Eccolo spiegato, allora, l’umore diffuso tra gli italiani che la Chiesa intercetta e rilancia, portavoce della realtà: la «vita della gente è in grave affanno e sente che il momento è decisivo», ma se sembriamo «capitati in un vicolo cieco» è ormai chiaro che dalla soluzione a questa complicata fase «dipende la stessa tenuta sociale». In altre parole: non basta superare l’ostacolo, è decisivo chiarire come lo si farà, e facendo leva su quali princìpi: «È necessario tenere saldo il legame con quei valori che fanno parte della nostra storia e ne costituiscono il tessuto profondo». Per capirci. La famiglia naturale non sopporta di essere avvilita a «grumo di relazioni», né di finire nel frullatore dei presunti «nuovi diritti» che – ammonisce Bagnasco, mettendo in guardia i troppi veri o finti ingenui – finiscono «inevitabilmente» per modificare il «sentire comune e quindi il costume generale». E se è indispensabile per i destini del Paese che la famiglia fondata sul matrimonio sia valorizzata, suona ormai «intollerabile» quello che il presidente dei vescovi definisce perentoriamente «lo sperpero antropologico» di intere generazioni di giovani – «il nostro maggiore assillo» – abbandonati alla deriva nel mare di un precariato che si fa «malattia dell’anima». C’è anche nella diagnosi del cardinale un passaggio che colpisce per la sua precisione inesorabile, e che fa sentire tutti chiamati in causa da un’analisi ecclesiale prima ancora che culturale: ed è quando parla di quella «certa mediocrità», o «relativa significanza» dei laici cattolici, che trova le radici in «una vita spirituale modesta». Non sarà qui, nella tiepidezza di un cristianesimo disposto alla «resa al ribasso» su «ciò che non è mercanteggiabile», che adesso occorre lavorare? Qualcuno si affanna a dire ogni giorno il contrario, ma di credenti solo «mediocri» il Paese oggi non sa davvero che farsene.
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