giovedì 28 novembre 2013
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Silvio Berlusconi è "decaduto" dal suo seggio senatoriale e, dunque, da ieri non è più membro del Parlamento. Quasi vent’anni dopo il suo ingresso da inatteso trionfatore in quella che è e resta l’Istituzione cardine della nostra democrazia repubblicana, il Cavaliere ne esce in malo modo, disarcionato. Il mondo politico, a netta maggioranza, percorrendo la più controversa delle possibili vie, ha "ratificato" ciò che un giudizio della magistratura aveva sancito, condannandolo definitivamente a 4 anni di carcere per frode fiscale e frode agli azionisti di Mediaset. Poteva non accadere adesso, ma era inevitabile che accadesse. Se si fosse aspettato appena un po’, infatti, sarebbe dovuta arrivare la presa d’atto da parte del Senato della sopravvenuta interdizione dai pubblici uffici dell’ex presidente del Consiglio e leader della risuscitata Forza Italia. In tal caso, forse, almeno in parte, ci sarebbe stato risparmiato lo scontro al quale continuiamo ad assistere. L’esito però non sarebbe stato diverso. Lo sviluppo di ieri non è una sorpresa e neppure una rivoluzione. È un fatto traumatico per il quale nulla c’è da applaudire e poco c’è da protestare.

Per vent’anni abbiamo scritto su queste colonne che i problemi politici non si risolvono mai per via giudiziaria, e che i problemi giudiziari non si rimuovono per via politica. Oggi ce n’è l’ennesima dimostrazione. Chi pensa, dice e persino grida il contrario fa un proprio gioco e coltiva interessi o illusioni precise, ma non fa il bene dell’Italia e neppure aiuta a capire la rischiosità del passaggio che sta davanti alla nostra pur salda democrazia. Abbiamo assistito, per settimane, a un balletto indemoniato e paralizzante attorno a questioni di governo serie e decisive per la qualità e la quantità di una ripresa economica tanto annunciata quanto nebulosa. A onta dell’impegno comune di Pd, Pdl e Scelta civica a sostenere il «governo di servizio» e di larga coalizione guidato da Enrico Letta, al cospetto di un’opinione pubblica già perplessa e ostile (come il voto del 24-25 febbraio aveva ampiamente dimostrato) ha imperversato quello che Berlusconi usava chiamare «il teatrino della politica». E ieri, a suon di randellate fuori e dentro il palcoscenico, siamo arrivati alla scena madre. Che induce agli applausi solo gli stolti. Perché finito lo spettacolo, resta la realtà che è quella di un più arduo governo dei conti pubblici, dell’economia e dei servizi ai cittadini e una maggiore fatica nel tentativo di far finalmente procedere l’essenziale sforzo riformatore di istituzioni e regole del voto.

Per questo sarebbe bene che chi siede in Parlamento su fronti che tornano a farsi duramente contrapposti – come nei momenti peggiori della troppo lunga stagione del "bipolarismo furioso" – non indugiasse più di tanto allo sterile esercizio delle proteste contrapposte. Lo diciamo con poca, ma tenace, speranza e molto allarme. Ognuno raccoglie o raccoglierà i frutti di ciò che ha seminato, delle proprie scelte e delle proprie presunzioni, delle proprie ambizioni. Se il governo Letta – che sta cercando di far quadrare il cerchio in una legislatura impossibile – non dovesse realizzare i suoi basilari obiettivi, chi anche nel Pd ha puntato a propiziare questo fallimento, ne porterà la responsabilità e finirà per pagarne le conseguenze. Senza un sensato riequilibrio di un sistema manomesso da riforme e riformette parziali e avventurose, infatti, nessuno vincerà mai davvero...

Detto questo, però, bisogna pur dire che c’è una primaria responsabilità di Silvio Berlusconi. Se davvero è sua intenzione «andare avanti» e non arrendersi davanti a quelle che considera ingiustizie, se davvero – come proclama la figlia Marina – stare o non stare in Parlamento pesa meno di niente sulla sua leadership politica, se davvero intende ridare smalto e non umiliare le istituzioni, non si riesce a capire perché non abbia saputo dimostrare davanti all’intero Paese – a chi lo vota, a chi non lo vota più e a chi non l’ha mai votato – quel personale disinteresse che molte accuse e una sentenza definitiva negano e che egli stesso non perde occasione per rivendicare. Perché non abbia dichiarato piena dedizione all’Italia. Torniamo a dirlo: se l’ex premier si fosse dimesso da senatore, all’indomani della sentenza, anticipando voti e lacerazioni, preservando governo e istituzioni (come altri, in altre fasi della nostra storia repubblicana, hanno saputo fare), e avesse continuato la sua battaglia da cittadino e da capo politico, forse non avrebbe azzerato errori compiuti e avversioni altrui, ma certo avrebbe inviato agli italiani un segnale molto forte e positivo.La storia non si fa coi "se". Perciò siamo a questo difficile passaggio. Bisogna uscirne. Riavvicinando la gente al palazzo, non scavando nuove trincee dove far marcire le residue speranze degli italiani. I veri leader si riconosceranno da questo.

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