Noi e Youssef che non è diventato Giuseppe
domenica 21 maggio 2017

Che a poche ore dall’aggressione di tre uomini delle Forze dell’ordine in Centrale e dall’arresto di Ismail Youssef Giuseppe Hosni, italiano di padre tunisino, ora indagato anche per terrorismo, decine di migliaia di persone a Milano siano scese in strada per una marcia intitolata «Insieme senza muri» e guidata dal sindaco della città accanto al presidente del Senato è un fatto che va in controtendenza rispetto all’ordine attuale delle cose. Siamo abituati, dopo ogni episodio di cronaca nera che veda protagonista un uomo dai tratti maghrebini o africani, al coro del 'rimandateli a casa, sbarrate il Mediterraneo,' o peggio, da parte di una 'politica' che già in vista delle prossime elezioni ha preso in ostaggio il tema dei migranti, di una 'politica' (con la 'p' minuscola) che sussurra al ventre e alle paure degli italiani.

E invece questa marcia di ieri nel cuore di Milano, nonostante la molteplicità e anche la riottosità di alcune sue anime, sembra un segno di contraddizione. Non tutti sono disposti a subire le suggestioni leghiste e a fare dello straniero il 'nemico', nell’immaginario collettivo. Nemmeno dopo un grave fatto di sangue come quello della Centrale, nemmeno dopo che si è scoperto che quell’Hosni, su Facebook, inneggiava al Daesh. In realtà, a leggere la storia di questo ragazzo, cittadino italiano figlio di una pugliese e un tunisino, cresciuto nella periferia di Milano, si resta impressionati per la quantità di violenza e solitudine che nei suoi poco più che vent’anni Youssef, chiamato dalla madre Giuseppe, ha attraversato.

Nasce nel 1996, cresce in una casa popolare al Forlanini. È ancora bambino quando la madre viene arrestata per maltrattamenti e violenza. Il padre invece finisce in carcere per furto, ricettazione e stupro. Poi esce e subaffitta la casa, dorme in cantina, si ubriaca. Torna in Tunisia con il figlio, ma Youssef-Giuseppe vuole vivere in Italia. Va dalla madre, che non lo vuole; la zia nemmeno, e finisce col dormire per strada, in un furgone abbandonato. Nelle notti più fredde va nei centri per clochard, ma anche lì, aggressivo, viene allontanato. Fino al primo arresto per spaccio, e poi alla aggressione dell’altro giorno. Fino alla scoperta su Facebook dei video del Daesh rilanciati, inneggianti alla distruzione dell’Occidente.

Leggi, guardi la foto segnaletica di quel ragazzo con la barba lunga e gli occhi da randagio, e pensi che, di chances, Hosni non ne ha avuta nemmeno una, dentro alla grande Milano che si diceva, una volta, avere il cuore in mano. Pensi che con una simile storia alle spalle facilmente si finisce a sognare una rivolta annientatrice. E sì, è pena quella che provi per l’ultimo sospettato di terrorismo islamico catturato a Milano, e una sorta di amara meraviglia: chiedendoti in realtà in quale città ha vissuto questo ragazzo, a quali scuole è andato, e se mai, con quei precedenti in famiglia, un servizio sociale o psichiatrico si sia chinato su di lui, quando era adolescente. Come se le periferie sempre evocate da papa Bergoglio si mostrassero, in questa storia, tessuto opaco e cieco, dove nessuno ha visto il giovanissimo dropout rifugiato in un furgone abbandonato, il figlio difficile di una delle tante coppie che incrociano nazionalità, fedi, culture diverse dentro la metropoli. Un tessuto cieco che alla fine riespelle il figlio mai veramente accolto, e mai certamente abbracciato.

Mentre della sua disperazione già qualcuno approfitta, inculcando feroci sogni di jihad. Tuttavia Youssef-Giuseppe, formalmente italiano, in verità quasi un apolide o un nomade respinto da tutti, poteva essere solo l’ultima occasione per far gridare all’invasione e al nemico, in una città che – giustamente – chiede sicurezza. Invece ieri, nonostante la grave e per fortuna non mortale aggressione di tre agenti, Milano non è scesa in piazza per urlare: fuori tutti, fuori quelli che non hanno la pelle e l’accento come noi. Il che pare un segno buono. Una parte di italiani non accetta di farsi sedurre dalla oratoria razzista che vorrebbe pilotarli verso la drammaticità di uno scontro elettorale, quale lo si è avuto in Francia. C’è chi non consente alla equazione straniero uguale nemico. Forse si può sperare ancora che ci sia anche, nelle nostre periferie, chi si accorge degli Youssef-Giuseppe e cerca di mostrare loro un volto buono dell’Italia.

In memoria se non altro dei milioni e milioni di italiani emigrati dalla fine dell’Ottocento all’estero, precipitati nelle periferie delle Americhe e del Nord Europa: quando 'italiano' era un insulto, e le porte si chiudevano al solo sentire quell’accento. Come magari è accaduto all’emarginato, violento, sospetto terrorista Youssef, che forse avrebbe voluto diventare Giuseppe, ma non è stato aiutato da nessuno. La giustizia faccia dunque il suo corso, dopo tante ingiustizie. Ma davvero nessuno, stavolta, almeno qui, cerchi di usare questo giovane uomo.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: