Le rom bruciate e chi dice: tre ladre in meno
mercoledì 17 maggio 2017

Sul tema (orribilmente grande) delle tre ragazze rom bruciate vive alla periferia di Roma, mentre dormivano nel camper della famiglia, siamo intervenuti tutti, giornalisti, scrittori, politici… Credo che abbiamo detto tutto quello che dovevamo dire. Abbiamo parlato molto. Ma abbiamo ascoltato poco. E ci serviva anche ascoltare, per meglio capire come e perché succedono turpitudini come questa. Il nostro istinto è di credere che questi pluriomicidi chi li fa li fa senza saperlo. Non è così: agisce per vendetta all’interno dello stesso tessuto sociale, come sembra dalle indagini.

Oppure, uno odia i rom e butta una molotov sul camper pensando: li faccio saltar fuori urlando e correre in giro spaventati, sarà uno spasso vederli, li filmo col cellulare. Crediamo che chi ha buttato la molotov non credeva di bruciare vive tre bambine. E che adesso, magari, sia pentito. Ma le smentite piovono da tutte le parti: quelli che scrivono «Tre ladre in meno», «Se fossero romane mi spiacerebbe di più», «Troppi rom sono ancora vivi», non sono pentiti, si addossano la strage a posteriori. È come quando una banda di neonazi devasta un cimitero ebraico: sa benissimo cosa quei morti han patito, e retroattivamente gli fa patire da capo le stesse sofferenze. Non è come i primi persecutori. È peggio. Sulle tre bambine rom bruciate vive ho avuto una discussione con i miei lettori su Facebook, e a un certo punto mi son ritirato, ho lasciato che parlassero tra loro.

Adesso guardo cosa si son detti. E imparo cose che non sapevo. Un lettore protesta: «Lo Stato non deve far niente per i nomadi, i nomadi sono fuori-Stato, se si ammazzano fra bande lo Stato non è tenuto a difenderli». C’è un concetto complesso sotto questa osservazione. Il concetto è che lo Stato non è di tutti e per tutti, ma per alcuni sì e altri no. A quel punto, nella discussione, era già venuta fuori l’osservazione che questi sono cittadini italiani, e queste piccole sono nate in Italia. Perciò il concetto che lo Stato non li riguarda nasce da una convinzione più diffusa di quel che crediamo, e cioè: avranno pure la cittadinanza, ma c’è una cittadinanza piena e una cittadinanza con riserva.

Questi son cittadini con riserva. Semicittadini. Non-cittadini. Sono stranieri. Un altro: «La domanda è: cosa avrebbero fatto queste tre rom, bruciate vive da piccole, se fossero diventate grandi?». Risposta sottintesa: avrebbero rubato. Dunque, pagano in anticipo oggi i crimini che avrebbero commesso domani. Anzi: una aveva già vent’anni, che vita faceva? Risposta: rubava. E dunque è giusto che paghi i crimini che ha commesso. La vicenda del piccolo siriano Aylan, morto annegato su una spiaggia, s’incrociò con la vicenda dei profughi siariani accolti in Germania, che di sera per le strade di Colonia palpavano le ragazze tedesche, e Charlie Hebdo approfittò dell’incrocio per farci una delle sue vignette maligne: «Cosa sarebbe diventato domani Aylan? Un palpatore di ragazze». Che significa: è morto da piccolo, ben gli sta, un palpatore di meno.

La moglie del re di Giordania rispose con una controvignetta, che mostrava Aylan adulto con indosso il camice bianco e in mano lo stetoscopio: laureato, faceva il medico. Perché no? Tornando alle tre bambine rom, il problema non è soltanto che le hanno bruciate, ma che adesso c’è gente che esclama: ben gli sta. E questa gente appartiene al mio popolo. Sentendo i loro commenti, mi viene un senso di depressione e di vergogna. Contro questa vergogna si concentra il rifiuto più tenace di una parte dei lettori. Pronti a dire: «La colpa è personale, noi non siamo colpevoli, e dunque non ci vergogniamo di niente». È difficile spiegare quel senso di vergogna, ma ci proverò. Nelle situazioni in cui ci troviamo a sostenere un’idea buona contro un’idea cattiva, tutti noi che a vario titolo scriviamo sui giornali applichiamo (che lo sappiamo o no) un principio che dice: se l’idea buona vince, il merito è suo, se perde, la colpa è nostra. Di fronte ai lettori che la pensano così, perdiamo. E ci sentiamo in colpa.

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