martedì 29 gennaio 2013
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​Non avrebbe senso tentare di riassumere la prolusione del cardinal Angelo Bagnasco ai lavori del Consiglio Permanente della Cei: è un testo che va letto tutto (e potete farlo sia alle pagine 5, 6 e 7 sia online su www.avvenire.it) perché, all’inizio di questo 2013, anno che lo stesso cardinale qualifica come «cruciale», essa tocca tematiche tutte essenziali, che sarebbe assurdo gerarchizzare. Altrettanto poco senso avrebbe leggerla andando alla caccia di ciò che in essa "non si dice" (in concreto: per quale partito i cattolici dovrebbero votare) rispetto a ciò che in essa viene invece esplicitamente detto: superare la tentazione di disertare le urne, i motivi per farlo (cioè i tanti "sì" che bisogna far risuonare), la necessità di non sprecare alcuno dei duri (e non sempre ben «proporzionati») sacrifici fatti per lasciarci alle spalle il baratro e per preparare la stagione del rilancio e, quindi, la doverosità per i cittadini di partecipare al voto politico.Il testo del presidente della Cei non ha nulla di allusivo e di indiretto: è una riflessione di alto profilo sul momento di crisi che vive il nostro Paese (e non solo il nostro: ci sono parole nello stesso tempo accorate e fermissime sulla persecuzione di cui sono oggetto i cristiani in tante parti del mondo e vi si ragiona con passione e profondità su evoluzioni e involuzioni dell’Europa). È un ragionamento che centra, senza esitazione, due questioni essenziali: la prima teologica, la seconda antropologica. La questione teologica – ricordiamoci che stiamo vivendo l’Anno della fede – è il dovere di annunciare senza sosta il Vangelo: questo è ciò che sta al cuore di tutto. Il cardinale riassume questo punto con un’affermazione nello stesso tempo semplice e radicale: «Non è vero che noi vogliamo fare politica, noi vogliamo dire Gesù». E poiché tutti, assolutamente tutti i cristiani, hanno il dovere di evangelizzare, con una frase come questa si stabilisce in modo fermissimo quello che è l’ordine autentico del mondo, un ordine di incarnazione. Da questo ordine trae consistenza la questione antropologica, che Bagnasco presenta dando estremo rilievo a quell’insieme di questioni che egli stesso riassume con l’espressione «biopolitica». Gli esempi immediati vengono alla mente di tutti e sono quelli classici e laceranti del dibattito bioetico: dall’aborto all’eutanasia alla procreazione assistita. Ma l’orizzonte della questione è ben più ampio di questo e il cardinale ne è consapevole. Vi rientrano la cura dei nati, l’ educazione dei bambini e degli adolescenti, la libertà religiosa e di coscienza, l’ assistenza ai deboli e ai malati, la sollecitudine verso i bisogni degli anziani e più in generale l’insieme delle condizioni materiali che garantiscono alle persone (prima ancora che allo Stato) la possibilità di orientare in modo umano la loro vita quotidiana. Per questo il presidente della Cei richiama esplicitamente anche i temi della «giustizia uguale per tutti» e della «pace». E giustamente si interroga: se si parla di bioetica e di biodiritto, «perché non concepire anche l’economia come bioeconomia»? Ed ecco che, dopo aver sottolineato valore e ruolo dell’economia sociale e civile, il suo discorso diviene non solo insistente, ma addirittura martellante: la questione qui non è quella di trovare bilanciamenti, compromessi, mediazioni tra istanze e interessi contrastanti o di promettere generosi spazi per le più diverse forme di obiezione di coscienza. «La dignità non è a corrente alternata». «Reticenze o scorciatoie non sono possibili». Il riferimento alla famiglia condensa tutto il discorso, perché la famiglia non è un accidente della storia, ma è un «alfabeto naturale», «uno dei fondamentali dell’ umano». La pressante insistenza sul riconoscimento legale del matrimonio omosessuale e dell’omoparentalità, osserva il cardinale, è qualcosa  di ben diverso dalla proposta di un innovativo (!) tema politico. È piuttosto il segno di una pretesa antropologica nichilista, malamente mascherata. Una pretesa che può pur inebriare chi si lasci suggestionare dal fascino di uno sperimentalismo che quanto più vuol essere assoluto, tanto più diviene irreale, ma che non può suggestionare chi sia in grado di percepirne il carattere di distorsione radicale dell’umano. Su tutto e con tutti si può trattare, a condizione che l’oggetto della trattativa sia comunque il bene umano: con il secolarismo «piegato in versione nichilista», un secolarismo che non riesce a scandire nemmeno l’alfabeto del bene umano, non sono possibili trattative, perché ne va proprio dell’umano nella sua radice. «Per questo la Chiesa è avanguardia». Affermazione estremamente forte, ma assolutamente vera.
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