venerdì 12 luglio 2013
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Caro direttore,
pur comprendendo che gli esseri umani sono soggetti a ogni sorta di scoramento o di devianza, la vicenda del magistrato calabrese che si sarebbe sottoposto a un 'suicidio assistito' supera i peggiori incubi. Anche senza la scoperta che il male incurabile, che lo aveva condotto a tale terribile scelta, sarebbe stato rilevato per errore... Questi sono i risultati della 'cultura della morte' quali che siano – come si suol dire – i particolari legati alla dinamica della vicenda. Se la morale della nostra società si è sgretolata fino a questo punto, siamo davvero in un mare di guai. Se la modernità a tutti i costi è questa, posso farne a meno anche in termini umani (in quanto l’umanità sta scomparendo per far posto a una 'lucida' follia). Superfluo dire che tutto ciò è ancor più vero per chi ha la fede.
Aurelio Cereti
 
La disperazione è una strana e imprevedibile bestia, e nessuno può pensare di essere indenne dai suoi morsi che possono rivelarsi mortali. Però, caro signor Cereti, lei ha ragione su alcune questioni decisive che richiama ed evoca. Prima di tutto, quella del folle, omologante e disumano piano inclinato ('perfettista' eppure all’insegna di tutte le 'precarietà') sul quale certa modernità pretende di far correre il futuro delle nostre società e delle nostre relazioni fondamentali. E poi l’altrettanto pazzesca e presuntuosa pretesa di caricare la scienza degli uomini di quella 'infallibilità' che non si riconosce più ad alcun’altra voce e autorità e che assolutizza e arma persino (contro se stessi) le determinazioni individuali.
Il caso di cronaca al quale lei si riferisce è davvero terribile, comunque la si pensi e si creda. Ne è protagonista un uomo poco più che 60enne che decide di farsi uccidere a pagamento in Svizzera (dove questa inconcepibile attività è consentita) perché gli è stata diagnosticata una grave malattia, che in realtà non ha. E ne sono protagonisti i parenti del paziente-vittima, prime fra tutti la moglie e la figlia, che hanno richiesto l’autopsia sul congiunto 'terminato' e hanno fatto emergere una nuova verità scientifica che rende ancor più intollerabile ciò che già era umanamente insopportabile. Ma l’errore non è solo quello scovato, sta in radice nella pratica mortifera. E l’errore non 'fa' l’orrore, lo amplifica.
La tragica vicenda è di un’eloquenza che non pretende commento. Non posso però rinunciare ad annotare, caro amico lettore, che questa storia tristissima fa risaltare con emblematica chiarezza che cosa produce la corsa ad aprire il 'mercato delle morti a comando' sotto l’antica e ingannevole bandiera dell’«eutanasia» e tra le recenti fanfare libertine di un presunto «diritto a suicidarsi» (con tutti gli onori e le garanzie di legge). E non posso che pensare – l’ho provata direttamente, per amicizia, e so di che cosa parlo – alla sofferenza di chi resta. Al dolore di quello strappo procurato che, poco a poco, può farsi quieto eppure non finisce. Penso a ciò di cui tutti abbiamo esperienza: lo strazio fisico e morale che può attecchire in noi, e in noi effettivamente attecchisce e a volte si radica, ma non è mai solo racchiuso nella nostra carne e nella nostra anima.
La morte non è una soluzione. E non è vero che non fa strazio «perché quando c’è lei, non ci siamo più noi». Ognuno di noi è se stesso, certo, unico e originale, ma è anche le proprie relazioni, i propri affetti, il proprio sguardo. Ognuno di noi è in una condivisa umanità, ognuno di noi è 'da', è 'con' ed è 'per'. E noi ci siamo sempre quando c’è la morte: la morte dei nostri genitori, la morte del marito o della moglie, la morte delle persone che in diversi modi ci sono vicine, la morte di coloro che ci hanno parlato con le loro opere e le loro umane abilità, la morte di ogni uomo e di ogni donna che incontriamo anche solo sulle pagine di un giornale. E la morte ci è «sorella» – come canta san Francesco – solo quando è naturale e inevitabile compimento delle nostre traiettorie e relazioni (umane e cristiane ), solo quando non le esaurisce in un gorgo nero, solo quando non ne facciamo la grande complice delle nostre disperazioni. Non disperiamo neanche di questa modernità, caro amico: viviamola e umanizziamola, da cristiani.
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