sabato 10 marzo 2012
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Qualcuno nei mesi scorsi l’aveva definita un esempio da seguire per i futuri interventi internazionali, ma più passa il tempo e più il "modello Libia" genera perplessità. L’idea che bastasse fornire la protezione aerea agli insorti in lotta contro il dittatore e assicurare un aiuto alla ricostruzione – con un controllo blando sulle dinamiche politiche interne – si scontra con la realtà di quel Paese. In Libia la percezione delle differenze regionali e tribali è stata amplificata dalla fine cruenta del regime; mentre la fragilità del tessuto politico-amministrativo rischia di trasformare in frammentazione statuale l’auspicata democratizzazione. È passato poco più di un anno dall’inizio delle rivolte in Cirenaica: da allora Gheddafi è stato barbaramente ucciso, il Consiglio nazionale transitorio guida la Libia, ma buona parte dei problemi rimangono sul tappeto. Le milizie che avevano combattuto il passato regime sono tutt’altro che sciolte e poste sotto il controllo del governo di transizione; quest’ultimo fatica a riavviare la gestione di un’amministrazione che il passato regime aveva volutamente reso debole e inefficiente.Non sorprende che le diffidenze e le storiche rivalità fra le tre macro-regioni libiche: la regione "egemone" della Tripolitania, il Fezzan tribale nel Sud e la Cirenaica, che si percepisce discriminata e oppressa da Tripoli, siano drammaticamente riesplose con la decisione di Bengasi di incamminarsi lungo la scivolosa strada di un’autonomia politica e finanziaria molto accentuata. Il modello che sembrano avere in mente è il Kurdistan iracheno, che chiama autonomia quello che Baghdad definisce una secessione mascherata. La reazione del Cnt è stata inevitabilmente molto dura: il suo leader Mustafa Abdel Jalil ha minacciato l’uso della forza dovesse la Cirenaica continuare con queste richieste e, ovviamente, non sono mancate le accuse a 'potenze esterne' che soffiano sulle divisioni per impossessarsi delle ricchezze energetiche del Paese. Difficile immaginare l’evoluzione di questa contrapposizione: sono troppe le variabili all’interno di uno scenario ancora così fluido come quello della Libia oggi. Ma sicuramente, la frattura lungo la dorsale centrale del Paese era uno dei timori maggiormente paventati lo scorso anno, quando si iniziò l’azione militare internazionale. Ed è l’Italia il Paese che più di tutti rischia contraccolpi negativi da nuovi periodi di instabilità sulle spiagge del Mediterraneo di fronte a noi.Una crisi interna fra Tripolitania e Cirenaica metterebbe nuovamente a rischio la produzione libica di greggio con conseguenze sui prezzi internazionali, già oggi sotto pressione per l’embargo deciso contro l’Iran. Ma per noi non si tratterebbe solo di pagare di più l’energia che importiamo: ben più grave sarebbe il veder messo a rischio un importante fornitore, dato che già dobbiamo – entro l’estate – sostituire il greggio iraniano. Ancor più, l’idea di un indebolimento statuale libico colpirebbe le nostre politiche di rilancio delle relazioni bilaterali e della politica di sicurezza, prima fra tutte quella relativa al controllo dei flussi migratori dall’Africa sub-sahariana. Per la comunità internazionale non sarà facile gestire questa nuova fonte di tensione: ogni intervento potrebbe essere visto da una delle due parti come un’interferenza o uno schierarsi partigiano. E bisognerà anche resistere alle tentazioni della cattiva analisi geopolitica, che può suggerire a qualche potenza regionale o internazionale di soffiare sul fuoco del contrasto per assicurarsi un controllo maggiore sulle risorse libiche. Eppure una maggiore attenzione internazionale è una necessità ineludibile. Come anche il comprendere finalmente che focalizzarsi solo sui nuovi scenari di crisi – se anche appaga il volubile interesse dell’opinione pubblica – non aiuta a risolvere in modo strutturale crisi di sicurezza e di stabilità che ci minacciano da vicino.
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