giovedì 7 marzo 2013
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Se n’è andato anzitempo Hugo Chávez, il ruggen­te presidente venezuelano, el Indio, come lo chia­mava affettuosamente quella metà del Paese che lo amava senza riserve nel ricordare le sue origini na­tive e come altrettanto lo bollava quell’altra metà che da sempre gli era stata ostile e che da quindici anni ribolliva all’opposizione.
Sconfitto da un male che nemmeno i volenterosi medici cubani hanno saputo domare, l’ultimo cau­dillo lascia il suo trono terreno dal quale ha salda­mente esercitato il proprio potere poggiando su quat­tro pilastri: un mare di petrolio che copre il 75% del­le entrate statali, un inarrestabile diluvio di dema­gogia, una forte dose di populismo di stampo neo­peronista e un ferreo controllo di tv e giornali, gra­zie ai quali aveva costruito pezzo per pezzo quel pa­namericanismo bolivarista modellato sul mito del Libertadór e parallelamente sul «riscatto dalla sud­ditanza yanqui».
Miele per il cuore di un continente da sempre per­corso da sentimenti ambivalenti nei confronti di Washington e del Nordamerica, ora visto come mo­dello irraggiungibile di sviluppo e di ricchezza ora come eterno feudatario che conserva geloso le chia­vi del 'cortile di casa'. Non a caso il bolivarismo di Chávez faceva scuola e proseliti. E non parliamo soltanto del boliviano Juan Evo Morales Ayma, del sandinista Daniel Ortega o dell’ecuadoriano Rafael Correa, diversissimi fra loro per estrazione e cultu­ra ma ugualmente partecipi di quel socialísmo na­cionál che Chávez mise in cima alla propria agen­da politica.
Il suo attivismo demagogico e scarsamente ri­spettoso delle regole democratiche finì con il na­zionalizzare tutto ciò che era possibile (60 compa­gnie petrolifere nella Faja de Orinoco, l’immenso serbatorio di idrocarburi del Venezuela, a comin­ciare dalla Pdvsa, oltre alla Compañía Anónima Nacional de Teléfonos de Venezuela e alla Electri­cidad de Caracas) in modo da consentire allo Sta­to l’elevata spesa sociale a favore delle classi me­no abbienti, ovvero al 90 per cento dei cittadini ve­nezuelani, un terzo dei quali abbondantemente sotto la soglia di povertà.
Poteva questo caudillo uscito non da Harvard o da Yale e nemmeno dall’Università dell’Illinois come Correa, bensì dal corso paracadutisti dell’Academia Militar de Venezuela e convertitosi a un’ibridazione fra marxismo e populismo, non suscitare la curiosità di Fidel Castro? E poteva Chávez sottrarsi allo sguar­do compiaciuto del Comandante en jefe, quell’in­tramontabile fratello maggiore che lo accoglieva come uno di famiglia all’Avana e con il quale con­cludeva un vantaggiosissimo baratto: medici e per­sonale sanitario – l’eccellenza di Cuba nel firma­mento latino-americano – in cambio di petrolio? Certamente no.
E mentre stringeva amicizia con l’iraniano Ahmadi­nejad e minacciava un giorno sì e uno no la Chiesa cattolica venezuelana (con la quale si riconcilierà negli ultimi mesi della malattia), Chávez s’impadro­niva grazie a Fidel dei segreti del populismo media­tico: ore e ore di talk show televisivi lo vedevano pro­tagonista assoluto nella trasmissione 'Alò Presiden­te' esattamente come il Líder Máximo, insuperato e infaticabile oratore, capace di maratone senza fine. Che cosa resterà, ci si domanda a poche ore dalla sua scomparsa, del caudillismo di Hugo Chávez, già fin d’ora destinato far compagnia a Che Guevara e a Evita Perón nel Parnaso dei miti latini? E dove andrà ora il Venezuela, sotto la guida del vicepresidente Maduro o forse un domani sotto quella dell’opposi­tore Henrique Capriles o del discusso presidente del Parlamento Diosdado Cabello?
Non tutto dello chá­vismo è certamente da buttare. Non l’idea di uno Stato sociale che il pur ricco Nordamerica rischia quotidianamente di dover abbattere dalle fonda­menta, né la visione di un mercato interno caraibi­co e latino molto prossimo al modello europeo. Ma per traghettare il Venezuela dal mito bolivarista alla realtà ci vorrà un leader che non sia più un caudillo. Per il quale l’ingresso nella modernità e nella democra­zia, quella vera, diventi l’ob­biettivo principale. Nell’atte­sa che anche a Cuba, definiti­vamente, cali il sipario sulla saga dei Castro.
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