Misuriamoci con ciò che ci rende deboli
giovedì 2 aprile 2020

Lo sappiamo: è nelle emergenze che noi italiani spesso riusciamo a dare il meglio. Siamo un po’ meno bravi, invece, a prevenirle, le emergenze: ma in questa fase storica, e nel caso specifico della pandemia da coronavirus, sembriamo in buona compagnia. Quello in cui, invece, proprio non riusciamo a migliorare, dimostrando di non aver imparato molto dalle lezioni del passato, riguarda la capacità di farci trovare nelle condizioni migliori quando un’alluvione arriva. Oggi la strada giusta da intraprendere di fronte al Covid– 19 e ai danni che la crisi sanitaria sta provocando all’economia del Paese e di milioni di famiglie è quella su cui ci si è incamminati: la tutela di tutte le fasce possibili del bisogno, superando i vincoli di spesa che un tempo sembravano paletti invalicabili. Ogni mezzo, insomma, pur di garantire i beni primari.

Perché questo sia possibile servirà il sostegno non tanto di un’Europa che i suoi membri sinora non hanno voluto fare politicamente concreta, ma dei singoli Paesi dell’Unione: si sta aprendo una nuova stagione del debito, una nuova fase della storia dell’economia, e dunque saranno necessarie nuove garanzie. Il Vecchio Continente ha l’opportunità di rifondare se stesso su basi di solidarietà nella responsabilità. In questo passaggio l’Italia deve presentarsi a testa alta, ma non può esimersi dal fare un po’ di autocritica, nella consapevolezza che un prezzo andrà comunque pagato. O vogliamo illuderci che i mezzi siano infiniti e che il benessere può essere creato stampando denaro? Se fosse veramente così, perché non ci abbiamo pensato prima? E come mai chi ci ha provato, in giro per il mondo, ha seminato vento e raccolto tempesta? Piccolo o grande, insomma, prima o poi un conto arriverà. E questo dovrebbe spingerci ad alcune riflessioni. Una lettura corretta della fase che stiamo attraversando ha fatto maturare subito la convinzione che tutti coloro che si trovano in difficoltà vadano aiutati. Siamo sulla stessa barca che rischia di affondare e dobbiamo uscirne insieme. Ma una volta terminata l’emergenza pensiamo veramente che tutto potrà tornare come prima?

Che una parte di Paese potrà riprendere, come niente fosse successo, a lavorare senza pagare tasse o non pagandole per intero? Che un’altra potrà continuare a lavorare versando il suo tributo non allo Stato, ma alle organizzazioni criminali? Che il sommerso continuerà a essere una forma diffusa e accettata di assistenza in territori e ambiti dove l’illegalità e l’assenza di tutele sono percepite come un male cronicizzato ma necessario? Che la tolleranza fiscale sarà ancora il motore di una ricchezza esclusiva? Che le rendite continueranno a beneficiare di trattamenti di favore rispetto al lavoro o agli investimenti sulle generazioni future? A proposito di famiglia: in questi giorni si stanno definendo forma e importi di bonus straordinari per soccorrere nuclei e lavoratori meno tutelati, ma se la classe politica negli ultimi anni fosse riuscita a introdurre un vero assegno universale per ogni figlio a carico, invece che finanziare in deficit una serie fin troppo lunga di mance elettorali, oggi le famiglie avrebbero uno straordinario ombrello di protezione, e di altro servirebbe ben poco.

La vera questione, però, è più a monte delle scelte finali. Mentre ci preoccupiamo di affrontare il tema della fame che sta mordendo anche l’Italia, dovremmo ricordare che gran parte di questa fame è anche dovuta al fatto che se nello straordinario sappiamo essere una comunità viva e solidale, nell’ordinario non siamo altrettanto capaci di fare ciascuno la propria parte. In campagna elettorale è facile attaccare il “fronte delle tasse”, ma oggi dovremmo ringraziare per il fatto che le tasse ci siano, e che qualcuno le paghi: diversamente non avremmo ospedali, medici, infermieri, cure, e nemmeno risorse da redistribuire. Il problema, semmai, è che di risorse ne abbiamo meno di altri. Sono passati 12 anni dallo scoppio della crisi del 2008, eppure sembra di essere di fronte agli stessi problemi di allora. È soprattutto questo che ci porta a chiedere a chi abita con noi la casa comune europea una condivisione dei sacrifici. Giusto. Ma siamo consapevoli che lo stiamo facendo per sostenere misure che ammettono implicitamente l’esistenza di una colossale e strutturale sacca di illegalità fatta di evasione, sommerso e mafie? E che è anche per questo che un grande Paese come il nostro non ha abbastanza risorse per un vero sostegno di emergenza? Il coronavirus ci ha scaraventati in un’oscurità che non pensavamo di dover incontrare, ma in questo buio esiste la possibilità di riconoscere meglio le cose che contano veramente. Ricordiamocene quando sarà tutto finito, se vogliamo essere ancora comunità.

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