domenica 29 dicembre 2013
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Nell’anno che sta per finire vorremmo dire una parola a Benedetto XVI. Una parola di memoria e gratitudine non solo per il suo grande pontificato, ma anche per quel gesto che pure, la mattina dell’11 febbraio, ci ha turbato e perfino sconvolto. In quanti, in ogni parte del mondo, siamo rimasti attoniti, e abbiamo percepito la rinuncia come un fulmine che colpisca un albero, e ne incida il tronco vivo. In quanti, poi, abbiamo guardato con tristezza e anche sgomento l’elicottero che si alzava in volo su San Pietro, e si allontanava. Da figli, non comprendevamo quel gesto. In molti ci siamo sentiti, diciamolo, come abbandonati. Quasi un anno dopo, però, cominciamo a capire. Quel giorno, è stato coraggio. Noi non sappiamo quale stanchezza e quali pesi gravassero su Benedetto; ma, rileggendo ora le parole dell’Angelus del 10 febbraio, ci pare che quando il Papa diceva di Simone sul lago di Gennèsaret, «sfiduciato per non avere pescato niente tutta la notte», ci fosse, almeno soggettivamente, qualcosa di lui stesso in quel primo apostolo a capo chino. Ma, concludeva il Papa quell’Angelus, «bisogna avere fiducia nella forza di Cristo, che agisce proprio nella nostra povertà; bisogna confidare sempre più nella potenza della sua misericordia, che trasforma e rinnova». E questa è la cosa grande che Benedetto, l’11 febbraio, ci ha insegnato.
Ci ha detto che occorre fidarsi totalmente, abbandonarsi a Cristo nell’ora della fatica e dello scoraggiamento. E che perfino la persona di un Papa può, sovrastata dagli anni, rinunciare; giacché, come ha poi detto nella sua ultima Udienza, «ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce». Dentro a questa certezza di roccia sbiadisce l’ansia e il senso di abbandono di quell’elicottero che rimpiccioliva all’orizzonte. Sì, ora forse cominciamo a capire il gesto di un uomo la cui fede in Cristo è tale, che non ritiene se stesso indispensabile, pur essendo il Papa. Sotto la esteriorità di una rinuncia stava un nucleo di assoluta audacia: la barca non è nostra, non è nemmeno del Papa, è di Cristo, vivo e operante nella storia. (E noi così smarriti, forse, anche perché tendiamo a credere più a noi, alle nostre forze, che a Cristo). In questa fede si scioglie la paura che in fondo a noi coviamo, di una Chiesa superata dal tempo, sopraffatta dalla modernità, disertata dagli uomini. «Essendo cristiani – aveva detto Benedetto nella Lectio divina al Pontificio seminario romano maggiore, venerdì 8 febbraio, e anche qui pareva quasi avvertirci del suo passo imminente – noi sappiamo che nostro è il futuro, e che l’albero della Chiesa non è un albero morente, ma albero che cresce sempre di nuovo». Albero che cresce di nuovo, pianta viva che può perdere le foglie ma getterà altri germogli. Non è forse ciò che vediamo in questi primi mesi di Francesco? Il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo» da subito ha trovato le parole per dire Cristo oggi, in modo che quasi, a chi è lontano, l’annuncio sembri nuovo, e seduca. Nemmeno lontanamente poteva pensare quel cardinale, nella sua lontana Buenos Aires, quale destino gli si preparava. Né, certo, Benedetto immaginava il nome del suo successore. Per misteriose segrete rotte la Chiesa seguiva il suo destino; barca condotta da un Altro. Ci ha detto col suo lasciare, Benedetto, che tutto è vero: Cristo vivo dentro la trama della storia, volto e non ombra, certezza cui possiamo affidare la vita. Grazie di questo. Della logica altra da quella del mondo, che in un gesto di mite audacia ci ha testimoniato.
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