venerdì 4 settembre 2009
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La prognosi è infausta, il malato morrà, e di settimana in settimana, di giorno in giorno si approssima la fine. A che servono più le medicine? A che giova idratare il corpo? Meglio sedare, sedare, il coma non dà dolore, è uno scivolo nella morte attesa che sta arrivando da sé. Lo chiamano Lcp, Liverpool care pathway, questo proposito dichiarato di "cura" dei malati terminali, che ha preso piede in Gran Bretagna come modello raccomandato, e si pratica in centinaia di ospedali e di ospizi, e in mezzo migliaio di case di riposo. Una cura? Oppure un protocollo di morte "ben ordinata" quando l’appuntamento si annuncia? Dà piuttosto l’idea di un check-in che mette tutti i prenotati in fila sul nastro che porta al cancello designato; la malattia è un foglio di viaggio concluso, la cura ultima è una carta d’imbarco, "lasciamo che prendano il volo". E se poi la diagnosi fosse sbagliata? Non è solo l’angoscia dei parenti a rivelare ora la prassi (cure carenti in un milione di casi); è la denuncia di un gruppo di medici specialisti, geriatri e oncologi e docenti universitari, pubblicata dal Daily Telegraph, sulla sorte dei "condannati a morte dal servizio sanitario britannico", circa gli errori diagnostici, l’improvvida interruzione di terapie, il rischio di mascheramento dei segni clinici di miglioramento. La lettera ha provocato un grande impatto emotivo, e ora sferza il pensiero di tutti sul rapporto fra medicina e vita, fra medicina e morte, sulle cure palliative sino all’ultimo, quando la guarigione non è sperabile, ma la vita ancora pulsa; sulla differenza fra la rassegnazione che rifiuta gli accanimenti e la desistenza terapeutica che abbandona il malato alla morte. Mi appassiona questo scatto di dignità della professione medica. Un servizio sanitario non si apparecchia funzionalmente ai servizi cimiteriali. La scienza medica è scienza della vita. Contrasta le malattie che insidiano la vita; escogita rimedi, farmaci, antidoti; combatte il dolore; con la chirurgia entra nei segreti del corpo, fino a trapiantarne gli organi; investiga il segreto dei geni; in ogni stagione della vita tiene in scacco la minaccia di morte. E ciò fa non per sfida tecnologica, ma per passione verso l’uomo. Non è infatti l’astratto concetto dell’amore alla vita in duello con la morte il baricentro dei valori professati e venerati, quanto piuttosto la concreta presenza dell’uomo vivente il bersaglio di un amore dovuto dentro la storia, di una passione per la sua vita. Questa passione tiene identica la dignità umana del sano e del malato, del neonato e del morente. La rivendicazione del "diritto a una morte degna" rivela lo scotto di un’inappagata pretesa a una assistenza sanitaria decorosa, che ripari dal dolore e dalla disperazione. Viene infine il giorno in cui la morte avrà vittoria sul corpo malato. Il medico però non vi si allea, non vi invoglia la china, non muta l’identico amore dell’uomo, dell’uomo morente; e se non sconfigge più la morte-nemica, affronta egli pure il mistero della morte-sorella. Lo choc non è la morte, lo choc è il disamore, l’abbandono alla morte come alla discarica infinita che inghiotte la nostre vicende precarie prive di senso, che le precipita nell’oblio del nulla. E così rifà spazio alle caselle vuote tornate occupabili dal servizio sanitario sovraffollato di "inutili morituri". Sembra di risentire la vertigine metafisica del teatro di Eduardo: sono questi morti le "voci di dentro", che non possiamo zittire.
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