mercoledì 5 ottobre 2016
Patriciello: così ho guardato negli occhi il primo pentito della Terra dei fuochi
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Si chiama Nunzio Perrella. È un pentito della camorra. Come già accadde a Carmine Schiavone, oggi si pente di essersi pentito. È stato il primo a fare marcia indietro e lanciare l'allarme sullo scempio che si stava abbattendo sui nostri territori. Ha parlato. Ha fatto nomi e cognomi di camorristi, industriali, colletti bianchi, politici corrotti e intrallazzieri vari. Era il 1992. Quattro anni dopo – siamo nel 1996 – sarà la volta del commissario di Polizia Roberto Mancini. Aveva capito tutto, il caro Mancini. Aveva messo nero su bianco e consegnato le carte ai superiori. Aveva indirizzato le autorità verso la soluzione. Niente. Non accadde niente. Quei documenti rimasero chiusi in un cassetto e Mancini fu trasferito a Roma. Morirà qualche anno dopo, anche per le conseguenze relative al dramma della "Terra dei fuochi". Venne poi il cassiere del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone. Era il 1997. Anche le sue confessioni furono secretate. Perché? Il vero motivo non ci è mai stato svelato. Passeranno quasi due decenni prima che l'attuale presidente della Camera, Laura Boldrini, desse l'autorizzazione a desecretarle. Perché non si è fatto tesoro delle dichirazioni dei pentiti e della onesta caparbietà di Mancini? Il bravo Beppe Fiorello, ha portato in televisione la storia di Roberto. Lo stesso Fiorello ha scritto la prefazione al libro «Madre terra fratello fuoco», testimonianze di alcune mamme dei bambini morti per cancro o leucemia. Nunzio Perrella oggi ha quasi 70 anni. Accetta di rispondere alle domande di un bravo giornalista davanti alle telecamere. Sono presente, insieme ad Anna, mamma "orfana" di Riccardino, volato in cielo a 22 mesi. C’è anche un ambientalista venuto da Brescia per amore della sua terra. Ci incontriamo una sera in un luogo sicuro. Il locale è vuoto, le luci basse. Tutto si svolge in un silenzio surreale. Ci si muove con passo felpato. Si parla sottovoce. Si preparano le telecamere e si indossano i microfoni. Perrella ci attende nella sala attigua, preparata per l'incontro. Ha accettato a una condizione: essere ripreso a viso coperto. I motivi si possono facilmente immaginare. Entriamo. Fa una certa impressione sedere accanto a un uomo che ha contribuito a fare tanto male alla nostra terra e al nostro popolo. Lui, però, a differenza di tanti altri, per primo volle fare un passo indietro. Sua è la frase diventata famosa: «Dottò, a’ munnezza è oro e a’ politica è munnezza,» «dottore, l'immondizia è oro e la politica è immondizia», disse rivolto al magistrato che lo interrogava. Si lamenta, Perrella, che di quella frase si citi solo la prima parte, ci tiene ripeterla nella sua interezza. Purtroppo l'oro cui allude è sgocciolato non solo dalla «munnezza» ma soprattutto dalla carne viva di tante vittime innocenti. Oro rubato. Oro rapinato. Oro maledetto. Sulla politica che lascerebbe tanto a desiderare ognuno ha le sue idee. I processi hanno accertato il coinvolgimento di tanti uomini politici in questo affare criminale. Generalizzare, però, non è giusto, non conviene e a noi non piace. L'incontro con Perrella, per me è deprimente oltre ogni immaginazione, come fu, tre anni fa, l'incontro con Carmine Schiavone. Il mondo ti appare come una piramide capovolta. Illogico, assurdo, sottosopra. Storie di intrallazzi, imbrogli, ruberie. Racconti di miliardi delle vecchie lire, cene, tradimenti, donne, lussi, percentuali da versare o da arraffare. Intrallazzi con le istituzioni. Un mondo brutto, sporco, sozzo, dal quale vuoi scappare via. Il mondo della camorra fa veramente schifo. La camorra è una vera montagna di immondizie. Ma Perrella non ci sta: «Questa semplificazione – dice – è fuorviante». Lui ci tiene a sottolineare che la camorra senza le maledette stampelle della politica avrebbe avuto vita breve. Ancora oggi. Il problema è sempre quello: l'accordo asfissiante stipulato negli anni tra camorra, politica, colletti bianchi e mondo degli affari. O, almeno, con certi personaggi della politica e del mondo degli affari. Perrella fa nomi e cognomi noti. Di tutti, anche dei magistrati di cui si è fidato e che, secondo lui, nel tempo lo hanno abbandonato. Lui, ancora oggi, è disposto ad accompagnarli sui luoghi dove sono sepolte tonnellate di immondizie tossiche. Abbiamo la possibilità di porgli qualche domanda. La maschera nera che ha sul viso mi impressiona. Mi sembra una metafora. Un uomo senza volto. Senza espressione. Senza sorriso. Un non-uomo. Faccio fatica a porre attenzione a quello che dice. Il mio essere prete prende il sopravvento. La mia mente ha bisogno di spaziare. Di correre per i cieli infiniti, i tempi eterni. Penso a Dio che ci volle creare a sua immagine. A Gesù sulle cui spalle sono ammassati tutti i peccati di tutti gli uomini di tutti i tempi. Al mistero del male che ancora riesce ad ammaliare e rovinare la vita di tante persone. Perrella è un fiume in piena. Niente di nuovo sotto il sole, almeno per me. Certo, la magistratura ha il suo bel da fare. Mi convinco sempre di più che il peccato, come la più buia delle notti, offusca e imprigiona le menti e il cuori. Congela gli animi. Elimina la gioia. Mette in fuga la speranza. Il peccato, senza la redenzione, è un abisso senza luce. Chiediamo, tra l'altro, a Perrella di riprendere a collaborare con la giustizia. Di continuare ad aver fiducia. Di non mollare. «Come vede lei – mi chiede il giornalista – il signor Perrella?». Verrebbe la voglia di imprecare. Rinfacciargli il male fatto. Ma a che serve rimestare nella melma? Occorre guardare avanti e fare tesoro delle sue dichiarazioni. Questo sì. «Sono addolorato nel constatare ancora una volta lo sciupìo di una vita. Ma la speranza che non tutto è perduto mi rincuora», rispondo. Perrella è preoccupato per i suoi figli. A mia volta chiedo a Perrella che cosa pensi del nostro impegno. Risponde che è ben poca cosa il lavoro nostro e di migliaia di volontari, giornalisti, professionisti, rispetto alla complessità del dramma dei rifiuti industriali tossici smaltiti illegalmente e alla scaltrezza di certi figuri che ancora continuano ad avvelenare i nostri territori. Lo so. L'ho sempre saputo. «Però, signor Perrella – gli dico –, alla fine è il piccolo Davide a sconfiggere Golia. I falsi giganti hanno sempre i piedi di argilla». Sono passate quasi tre ore. Anna gli legge alcune lettere scritte da lei e da altre "mamme orfane". A chiunque verrebbe da piangere, come accadde all'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Perrella ammette le sue colpe ma, ancora una volta, tiene a ribadire che lui è un pentito della prima ora, che se lo avessero ascoltato, in quel lontano 1992, tanti bambini non sarebbero morti. E forse ha ragione. Siamo provati, spossati, stanchi. La registrazione termina. Perrella saluta ed esce di scena. Mando qualcuno a chiedergli se ha piacere di incontrarmi senza quella orribile maschera. Accetta. Lo guardo in volto. So che anche per lui nostro Signore è morto. Lo abbraccio. Traccio un segno di croce sulla sua fronte. Lo affido alla misericordia di Dio, convinto che anche queste ore faticose e tristi serviranno a fare un passo avanti nella ricerca della verità e nel trovare soluzioni vere per la nostra terra.
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