martedì 10 dicembre 2013
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Il successo ottenuto nella consultazione degli elettori democratici da Matteo Renzi, nettamente superiore a quello che aveva raggiunto in quella riservata agli iscritti, conferisce al nuovo segretario un mandato che appare meno condizionato e meno condizionabile dalle correnti interne di partito. Così almeno dovrebbe essere, anche se i precedenti, seppure parzialmente diversi, degli altri leader del centrosinistra usciti vincitori delle primarie, Romano Prodi, Walter Veltroni, lo stesso Pierluigi Bersani, continuano a proiettare un’ombra densa di dubbi e di interrogativi. La prima sfida che Renzi dovrà affrontare è quella del governo del partito, non tanto per i rischi di secessione attribuiti da alcune fonti giornalistiche, ma senza riscontri riconoscibili, ai settori più legati alla continuità con il Pci-Pds-Ds, quanto per i fenomeni di demotivazione e di abbandono silenzioso in settori della base organizzata e di resistenza aperta da parte di centri di potere autonomi (e naturalmente legittimi) come quelli della Cgil o di altre organizzazioni di massa che una volta venivano definite "collaterali". La sconfitta dei "continuisti" non è una novità, ma ha assunto una dimensione superiore alle attese, che si poteva però pronosticare quando si è visto che nessun esponente di primo piano del partito se l’era sentita di scendere in campo in competizione con Renzi, lasciando l’onere della sfida a un dignitoso ma debole Gianni Cuperlo. Naturalmente le primarie durano un giorno, poi in campo restano i politici professionali, gli eletti e i responsabili delle organizzazioni territoriali, e in questa fascia decisiva la forza diretta del nuovo segretario non è travolgente, il che gli impone un esercizio di "conquista del consenso reale" dei gruppi dirigenti, che è l’unico strumento per evitare che si ripeta il gioco del "consentire" per condizionare, prima, e abbattere, poi, che ha segnato la sorte dei suoi predecessori.Il tema della conquista del consenso reale nel partito si intreccia con l’altro problema che il neosegretario democratico deve affrontare, quello di esercitare una funzione riconoscibile nel panorama politico nazionale, in una fase in cui questo panorama appare particolarmente instabile e frammentato. Se è vero che molti attribuiscono a Renzi l’urgenza di sfruttare il successo di partito in una verifica elettorale tempestiva, è giusto ricordare che l’urgenza che egli ha sottolineato, anche nella conferenza stampa di presentazione della segreteria che si è svolta ieri, è quella di «ottenere risultati». Il fatto che tra questi obiettivi prioritari abbia ricordato la riforma costituzionale di abolizione del bicameralismo perfetto, che richiede, anche in caso di consenso amplissimo, una doppia lettura parlamentare che non si può realizzare in meno di un anno, fa pensare che Renzi sia interessato a far durare l’esecutivo in carica, segnando il suo percorso con la pressione delle urgenze che vengono dal Paese, ma senza tendenze crisaiole. Si vedrà se e come questa prospettiva troverà il necessario consenso degli altri settori della maggioranza, finora snobbati per le esigenze di affermazione della vocazione maggioritaria sbandierata nella campagna elettorale delle primarie, ma con i quali sarà necessario cercare punti di intesa, da allargare anche a tutti i potenziali interlocutori d’opposizione sui temi delle riforme istituzionali e costituzionali.La conclusione di una operazione di ricambio al vertice (ma anche nella fisiologia sostanziale) della maggiore formazione politica è in ogni caso un fattore di assestamento (e di assestamento affidato a una forma specifica di sovranità popolare) della classe dirigente in controtendenza positiva in un Paese in cui la crisi della sovranità popolare rischia di intrecciarsi drammaticamente con quella della sovranità nazionale.
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