Maternità: oltre i dubbi, l'essenziale. Una certezza che rifonda
martedì 19 dicembre 2017

C'è un bambino, riconosciuto come proprio figlio da una donna che dice di essere sua madre. C’è un tribunale che invece dice che quel bambino non è figlio della donna che lo ha riconosciuto. Questa donna è sposata a un uomo, padre biologico del bambino, che è nato da utero in affitto, in India. Cioè ha una madre genetica, che ha "donato" l’ovocita, e un’altra surrogata, che ha portato avanti la gravidanza e che lo ha partorito. Ma la donna che vuole essere riconosciuta come madre del piccolo è una terza persona, diversa dalle due madri biologiche (la "donatrice" e la surrogata, che in questa vicenda restano anonime, sullo sfondo): è «la persona che ha formulato il progetto famigliare e che, dalla nascita del bambino, ne è madre», come viene indicato da alcuni giudici, con una definizione a dir poco inquietante di maternità.

L’atto di nascita con cui il bambino è riconosciuto figlio dei due committenti – i coniugi che hanno firmato il contratto di maternità surrogata – è stato trascritto in Italia, ma poi il Tribunale ordinario di Milano ha fatto un passo indietro, cioè ha stabilito che la donna che ha firmato il contratto di surroga e ha cresciuto il bambino non è la madre, perché non lo ha partorito. La donna ha quindi fatto ricorso alla Corte di Appello, sostenendo che il legame biologico non può essere l’ultima parola su chi siano i genitori di un bambino, ed è questa Corte a porre il quesito alla Consulta, che ieri ha risposto. Per decidere bisogna stabilire quale sia il massimo interesse del piccolo, e la riflessione intorno a cui si sviluppa la sentenza della Corte Costituzionale è: quanto è importante la verità biologica, cioè l’esistenza o meno del legame biologico fra una donna e un bambino, per stabilire se sono madre e figlio davanti alla legge?

Al di là delle complesse e articolate considerazioni giuridiche, colpisce il modo in cui emerge la questione, e cioè come una contrapposizione fra favor veritatis, cioè l’interesse alla verità, e favor minoris, cioè l’interesse del bambino. Ma può esserci un interesse del bambino che escluda la verità su come è venuto al mondo? Come ha giustamente sottolineato l’Avvocatura dello Stato, le due cose non possono confliggere, al contrario: la verità su come una persona è stata concepita e su come è nata è una componente fondamentale della sua identità, anche se non è l’unica.

La sola esistenza di una discussione come questa dovrebbe far suonare una imponente sirena di allarme: possiamo non essere più in grado di stabilire chi è la madre di un bambino!

Dobbiamo chiederlo a più di un tribunale, e non c’è un Salomone in grado di rispondere, perché la domanda è andata oltre, e ci stiamo domandando quale sia il bene di un bambino, e poi se e quanto vale la verità, e, in ultima analisi, se esiste una verità su chi sia la madre di un bambino. E la Consulta, che pure ha dato una risposta improntata a buon senso e buon diritto, non può che aprire – simbolicamente – le braccia e dire: in questo caso non esiste una risposta certa e automatica, che valga sempre. Ogni volta dovete considerare e soppesare tutto. Come quel piccolo è stato concepito, e poi partorito, e poi come è vissuto fino ad adesso, e poi anche valutare se si può regolare il tutto con una adozione. E ricordatevi – ammonisce sempre la Consulta – che la maternità surrogata per la legge italiana ha «un elevato grado di disvalore», è vietata perché «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», e anche di questo va tenuto conto. E quindi altri giudici dovranno ancora pronunciarsi, per scoprire quale sia il bene per quel bambino, e quindi dire chi è la sua mamma.

Eppure nella domanda posta alla Corte Costituzionale, a voler leggere bene, la risposta già c’è: se riconoscere la verità di quel concepimento e di quel parto potrebbe contrapporsi al bene di quel bambino, significa che nascere in quel modo, come "progetto famigliare" regolato da un contratto di maternità surrogata, non è un bene. Oramai abbiamo difficoltà a riconoscere una verità elementare, e cioè che ogni bambino ha diritto a vivere non con una madre, individuata a seconda delle circostanze da un qualche tribunale, ma con sua madre. Unica (semper certa, si diceva un tempo). E la verità è che la sua unica madre è quella che suo figlio lo ha concepito, lo ha portato in pancia e lo ha partorito, e se ce ne è un’altra può essere solo adottiva, quando la prima non c’è più o non è più in grado di crescerlo. Tutto il resto è delirio di onnipotenza in cui troppi sono caduti, un mondo in cui si può persino stentare a riconoscere il volto della mamma.

E meno male che, almeno in Italia, i custodi della Costituzione stanno ribadendo che la pratica dell’utero in affitto, saggiamente e limpidamente vietata nel nostro ordinamento grazie alla legge 40, «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». Ripetiamolo, sottolineiamolo, siamo tutti e tutte conseguenti. Ecco una certezza da cui, umanamente, ricostruire il vero e pieno rispetto della maternità, della paternità e della condizione di figlio.

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