domenica 11 aprile 2010
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Una proposta innovativa da Milano, un appello pressante da Parma. Acli e Confindustria, due tra le realtà associative più consapevoli e più coinvolte nella società e nell’economia italiane bussano quasi nelle stesse ore alle porte del governo. Suggeriscono, le prime, di aggredire in maniera diretta e in misura sensibile lo zoccolo duro dell’indigenza nazionale: quel 4,2 per cento di famiglie rinchiuse cronicamente nel recinto statistico della "povertà assoluta". Sollecita la seconda, tra l’altro, l’avvio senza ulteriori indugi di una riforma fiscale che conceda «qualcosa subito» a imprese e lavoratori impegnati nonostante tutto a tenere il Paese «in piedi».Non c’è, ovviamente, una simultaneità concordata nelle due iniziative. Il duplice e parallelo impulso acquista, nondimeno, una portata simbolica che sarebbe miope passare sotto silenzio. L’ulteriore, marcato calo del reddito delle famiglie italiane, certificato tre giorni fa dall’Istat, invita piuttosto a una doverosa sottolineatura del messaggio apparentemente diverso, ma in buona sostanza convergente, lanciato all’esecutivo dalla conferenza organizzativa aclista e dal convegno di studi degli imprenditori privati.Perché convergente? Uno sguardo in contemporanea – verrebbe da dire sinottico – da un lato alla stratificazione sociale, dall’altro agli indicatori economici più recenti del sistema Italia, permettono di abbozzare una risposta convincente. È innegabile, per cominciare, che ormai da alcuni decenni siamo in attesa di una cornice legislativa unitaria, in grado di attaccare l’area della povertà più cruda, coinvolgendo nello sforzo Stato centrale e autonomie locali, soggetti pubblici e galassia del volontariato.Adesso dunque, senza perdere altro tempo in sterili contrapposizioni polemiche sulla sua adeguatezza o "potabilità" politica, le Acli chiedono di riprendere in mano e di rafforzare lo strumento della Social card, ampliandone gradualmente la platea dei destinatari (con un’attenzione particolare alle famiglie con figli, finora rimaste in gran parte escluse), incrementandone l’importo senza strappi intollerabili per le casse dello Stato, assegnando agli enti locali e agli operatori del non profit un ruolo crescente nella gestione, fino a disegnare in prospettiva una sorta di "welfare territoriale" coerente con il principio di sussidiarietà.È evidente che siamo di fronte a un approccio di natura emergenziale, come si conviene del resto a una realtà allarmante nelle sue dimensioni e, si direbbe, nella sua ineluttabilità. Non a caso anche l’altro ieri, alla conferenza milanese, si è ricordato che l’Italia, insieme con Ungheria e Grecia, è l’unico membro della Ue ancora privo di meccanismi strutturali di lotta alla miseria e all’esclusione sociale.Ma nel momento stesso in cui si tenta di intaccare una buona volta l’area della povertà assoluta, è inevitabile porsi un obiettivo altrettanto necessario e complementare: quello di evitare che nuove aliquote di italiani arretrino nella classifica del reddito disponibile, fino a piombare a loro volta nel girone infernale dell’indigenza. Perché sarebbe assurdo, e a lungo andare suicida, ridursi a una pura azione di tamponamento, che non fosse accompagnata da strategie adeguate di prevenzione della degenerazione sociale.Qui entra in ballo, ci pare, l’invito-sfida di Emma Marcegaglia e dei suoi associati a darsi da fare sul terreno delle riforme e degli interventi infrastrutturali, cercando nel taglio della spesa pubblica improduttiva le risorse necessarie a finanziarli. È innegabile infatti, come Tremonti non cessa di ricordare, che i nostri conti pubblici non consentono troppi voli pindarici. Eppure attendere passivamente tempi migliore non può essere un’alternativa accettabile. Lo slittamento continuo verso il basso delle condizioni di vita delle famiglie, dei loro consumi e del conseguente apporto alle stesse entrate fiscali, rischia di alimentare proprio quel circolo vizioso che la strategia anti povertà delle Acli si propone di spezzare.
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