mercoledì 13 aprile 2016
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La cattiva scelta di Riina jr in tv e una lezione utile «Aquesto può servire parlare di mafia, in modo capillare, a scuola: è una battaglia contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi». Che Pino Puglisi avesse ragione da vendere lo si è intuito una volta ancora mentre giovedì sera i televisori facevano entrare nelle case degli italiani la faccia di Salvo Riina, figlio di Totò, ospite di Bruno Vespa nello studio di 'Porta a porta'. Il fatto non ha bisogno di approfondimenti perché ben nota è la polemica seguita alla scelta della Rai di ospitare il rampollo del boss, autore di un libro di ricordi familiari. Neppure è in discussione il diritto-dovere dei giornalisti di svolgere come meglio credono il proprio lavoro: sbaglia chi ritiene il contrario.
 
 
E tra costoro spiccano quanti rivestono ruoli politici, ai quali non toccava in passato, come non spetta oggi, di scrivere i palisensti della tv pubblica. Loro compito, semmai, è elaborare norme che rendano il servizio pubblico finalmente tale, libero da lacci e lacciuoli e da schemi culturali esclusivi. È su questo piano che la vicenda va affrontata, con una serietà sin qui mancata: far parlare la mafia di sé è sempre un azzardo. Soprattutto se è una mafia che si presenta affettuosa nella sua intimità familiare, con il più crudele dei boss esibito come il migliore dei papà. Riina jr. ha scritto un libro di memorie 'senza memoria'.
 
 
 
Con le stesse volute dimenticanze si è seduto davanti alle telecamere. E angoscioso è risultato l’effetto di un’intervista con tante richieste di verità ed altrettante risposte non date: avere il figlio di Riina in studio e non pretendere che si misurasse con la memoria dei martiri di Cosa Nostra, che desse un giudizio di valore su uno dei periodi più bui e dolorosi della nostra storia, è una ferita, specie per i familiari delle vittime, ai quali, assurdamente, è stata poi concessa una serata 'riparatoria'. Una puntata interamente dedicata alla lotta alla mafia. Uno schiaffo inaccettabile: in uno Stato democratico – come su 'Avvenire' si è subito sottolineato – non vige la par condicio tra i familiari dei mafiosi e quelli delle vittime dei mafiosi. Non è possibile, né accettabile. È vero: sarebbe come mettere sullo stesso piano i razzisti e gli anti-razzisti, i seminatori d’odio e i costruttori di pace. Perché questo non accada, occorre che quanto don Puglisi – e non solo lui – andava affermando trovi effettiva concretizzazione.
 
 
Un cambio di mentalità indispensabile, che aiuti a combattere davvero le cosche, che non potranno mai essere debellate solo con processi e condanne, quando pure arrivano, ma soltanto estirpandone le radici economiche, sociali e ambientali: in una sola parola culturali, creando lavoro, dando formazione, difendendo i diritti. Alla maniera del parroco di Brancaccio, fatta di carne e sangue e non di parole o di carta, ciascuno nella concretezza quotidiana e nel proprio ambito, in silenzio e con dignità, lontani dal clamore mediatico. Già Leonardo Sciascia, negli anni Ottanta d’un Novecento tanto lontano da sembrare preistoria, sosteneva che per fare carriera e soldi basta «usare l’antimafia come strumento di potere: ieri c’erano vantaggi a ignorare che la mafia esistesse, oggi ci sono vantaggi a proclamare che esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi».
 
 
Aveva ragione lui. Eppure, in Italia, sembra che la lotta alle mafie sia missione esclusiva dei professionisti dell’antimafia. Bravi a dispensar patenti di legalità, a fare e disfare governi con un titolo di giornale, a sfornare sentenze senza aver mai aperto un codice, neppure quello della strada. Gli unici, insomma, capaci di lucrare persino su picciotti e lupare. Non si vince dominando le apparenze, ma conquistando i cuori. Don Pino Puglisi, come tanti altri, l’aveva capito. E per questo è stato ammazzato. Speriamo non invano. 
 
 
*Arcivescovo di Catanzaro e postulatore della causa di canonizzazione di don Pino Puglisi
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