venerdì 3 aprile 2009
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Un piano globale per triplicare le risorse del Fondo monetario internazionale, lotta serrata ai paradisi fiscali, un tetto agli stipendi dei manager e dei banchieri, 50 miliardi di dollari di aiuti ai Paesi poveri, 5.000 miliardi di stimoli fiscali per rilanciare l’economia e creare nuovi posti di lavoro. La lista potrebbe continuare nei dettagli, ma fermiamoci pure qui, alle battute conclusive di quel G20 che si è chiuso ieri a Londra al capezzale di questa crisi planetaria in corso ormai dall’estate del 2007 e per la quale si sfornano continue ricette e si stanziano immani somme di denaro. I grandi della Terra (al G20 si trovavano faccia a faccia i rappresentanti dell’80% delle risorse economiche del pianeta) comprensibilmente esultano: eccellenti risultati, conclusioni al di là di ogni ragionevole ottimismo, un nuovo ordine mondiale all’orizzonte sono solo alcune delle iperboli scaturite dal summit londinese. Un orgoglio a suo modo giustificato: alla vigilia si temeva un fallimento del vertice, di qua gli Stati Uniti con l’esordiente Barack Obama che premevano per massicce immissioni di liquidità, di là la prudente Europa, impensierita dal rischio di un’iperinflazione dovuta al grande indebitamento che si verrebbe a creare se ogni singolo dicastero del Tesoro si mettesse ad emettere valanghe di titoli di Stato per finanziare la ripresa. Ma il raggiunto accordo non può occultare una duplice verità: che cioè a dispetto delle buone intenzioni si finisce sempre per parlare di banche e di finanza, di assorbimento di titoli 'tossici' e di stimoli keynesiani, dei pericoli del protezionismo e dei benefici del libero mercato e molto meno della realtà – quella vera – che ci circonda. Ed è questo secondo aspetto che sarà difficile ignorare nel futuro, assodato che finora è stato messo in sordina: il fatto cioè che alla gente comune importa relativamente poco dei paradisi fiscali e dei bonus concessi ai manager incapaci e viceversa molto più delle migliaia di posti di lavoro perduti, del restringersi inesorabile del proprio potere d’acquisto (i salari in molti Paesi d’Europa, Italia compresa, sono sostanzialmente fermi ai valori reali del 1993) e dell’incertezza che domina il futuro delle famiglie e di coloro che verranno. Basta guardarsi attorno: una bolla di almeno 210 milioni di disoccupati – 20 milioni in più solo quest’anno – si aggira per il mondo industrializzato. Una bolla che in Europa potrebbe arrivare presto a 40 milioni e qua e là (pensiamo ai recenti episodi di sequestro di manager, assalti alle sedi delle banche, proteste violente) mostra il suo potenziale eversivo e insieme il volto brutale ma non del tutto incomprensibile di quella che un tempo si sarebbe chiamata lotta di classe. E se dunque un appunto, uno solo, ma che vale per tutti, si può muovere al G20 come a tutti i vertici di questo genere è quello di non lasciare che la voce della gente (non soltanto dei poveri e non soltanto del Terzo mondo) riesca davvero a filtrare la cortina del protocollo, delle foto-ricordo, degli sherpa che confezionano, limano e riaggiustano le bozze del comunicato finale, per giungere alle orecchie dei capi di Stato e di governo. Una voce assordante, enorme, urgente. Che non siamo sicuri – nonostante qualche fugace accenno alla «dimensione umana della crisi» – sia sempre colta appieno nella sua gravità. Quando ciò accadrà si potrà parlare davvero di «nuovo ordine mondiale», non prima, non abbattendo qualche barriera sul segreto bancario.
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