sabato 30 marzo 2013
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Digitali. O, tutt’al più, «misti», e cioè un po’ cartacei e un po’ elettronici. Così saranno i manuali in adozione nelle scuole italiane a partire dal 2014-15. La data, come sappiamo, è stata da poco fissata da un decreto del ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo. Un provvedimento atteso, ma che ha subito suscitato le reazioni più diverse.
Ci sono i tecno-entusiasti, che già da tempo sperimentano una didattica basata sull’impiego di ogni possibile strumentazione informatica, con una spiccata preferenza per l’ormai dilagante tablet, la «tavoletta» dall’aspetto straordinariamente simile a quello delle altre tavolette, cerate, adoperate dagli studenti nell’antichità. Ma ci sono anche i tecno-scettici. Come il filosofo Giovanni Reale, che proprio in questi giorni pubblica un battagliero pamphlet intitolato Salvare la scuola nell’era digitale (e La Scuola, oltretutto, è pure il nome dell’editore...). Senza dimenticare i tecno-tecnologici, per i quali il decreto Profumo non è ancora abbastanza: dove la mettiamo la banda larga? Come si fa a immaginare una didattica a misura di tablet se nel nostro Paese la rete wi-fi resta un miraggio?
Dibattito appassionante, ma il frequentatore abituale di libri nei più vari supporti e formati ha l’impressione che qualcosa di essenziale stia sfuggendo. Che cosa? Semplicemente il fatto che ancora oggi, in questa Italia proiettata verso le magnifiche sorti e digitali della scuola 2.0, ci sono case – e sono forse la maggioranza – in cui il tanto vituperato «libro di testo» è l’unico libro disponibile. Con l’eccezione dell’elenco del telefono, magari, anche se ormai ci si sente più che altro al cellulare e, quando proprio c’è da reperire un numero fisso, lo si cerca sul web. I ragazzi, almeno, fanno così. Loro, ai quali insegnanti appositamente formati dovrebbero presto spiegare come funzionano i dispositivi che i ragazzi stessi conoscono fin troppo bene.
Un libro, spiegano gli studiosi della conoscenza, è molto più di un testo. È una forma del pensiero, un modo di guardare alla realtà. Hans Blumenberg lo ha spiegato in un saggio che ha fatto epoca e che si intitolava La leggibilità del mondo: educato alla comprensione del Liber Scripturae (la Bibbia, ma anche ogni altra opera dotata di visione e di intima coerenza), l’uomo poteva spingersi a esplorare il Liber Naturae.
Con tutti i loro difetti, antologie e sussidiari sono stati per molte generazioni la prima occasione per accedere a un simile livello di complessità. Questo, ancora oggi, è il compito che la scuola dovrebbe preoccuparsi di assolvere. Educare a ciò che non è attuale, perché l’attualità – quella – la trovi già dappertutto, ci dovrà pur essere un luogo al riparo dal flusso e dalla ridondanza delle informazioni.
Navigare in Internet è, letteralmente, un gioco da ragazzi, che gli adulti possono magari sforzarsi di emulare, senza tuttavia sperare di raggiungere risultati altrettanto efficaci. Consultare una bibliografia, frequentare una biblioteca, imparare a conoscere il valore di un libro dalla collana che lo ospita, carpirne i contenuti essenziali partendo dall’indice: queste sono piccole astuzie del sapere che solo la scuola, in questo momento, è in grado di trasmettere. Al netto di ogni arricchimento multimediale, il libro digitale è ancora più testo che libro. Un modo per trasmettere e condividere dati, il che non è poco. Ma oggi più che mai per leggere il mondo abbiamo bisogno di immaginarlo impaginato come un libro.
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