martedì 15 marzo 2016
L'aiuto al credito non basta, sostegno agli investimenti. Ecco perché va ampliato l’intervento della banca centrale europea. (Leonardo Becchetti)
 Ma la Bce ha bisogno di un'altra spinta
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Non è più l’Unione Europea questa, ma una sorta di 'Bce-landia'. Un Sacro Romano Impero dei giorni nostri dove il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, è il novello Carlo Magno, l’unico rappresentante di un potere centrale che cerca di portare ordine tra le contee riottose e in lite tra loro su molteplici fronti, suscitando le ire dei potenti 'principi tedeschi'. I tempi sono cambiati e il potere centrale della Bce è in realtà espressione di un direttorio che costituisce di fatto l’unica vera istituzione federale europea. Ed è di conseguenza l’unico luogo dove il persistente errore dei 'primi della classe' tedeschi, che non accettano di dover adattare il loro passo a quello degli altri, viene corretto dal voto a maggioranza che impone decisioni in direzione del benessere di tutti. In un mondo a inflazione zero, ricordavamo tempo fa, la Banca Centrale ha un potere immenso che pian piano sta imparando ad utilizzare appieno. Come ha ricordato a commento delle ultime decisioni Victor Constancio, anch’egli banchiere centrale e membro del direttorio, quanto fatto in passato ha ridotto in parte il rischio di deflazione ma, aggiungiamo noi, non è stato abbastanza, rendendo assai problematica la gestione dei debiti pubblici europei vista l’inflazione largamente al di sotto dell’obiettivo del 2%. La strategia complessiva per far ripartire l’economia, pur lodevole nelle intenzioni, è purtroppo figlia di un errore di fondo: l’intenzione di puntare su un solo modello di banca sempre più grande e massimizzatrice di profitto. I dati a livello mondiale spiegano inequivocabilmente perché. Il rapporto tra impieghi e totale dell’attivo (ovvero l’intensità di credito e la misura in cui le banche si dedicano a quest’attività) è bassa nelle grandi banche sistemiche (40% in media nel 2014), più elevata di circa 10-15 punti percentuali nelle banche cooperative a voto capitario e ancora superiore nel piccolo insieme delle banche etiche mondiali, Global Alliance for Banking on Values (75% in media nello stesso anno). Tutto questo a parità di patrimonializzazione, perché il Tier 1 (il patrimonio di base) del primo e del terzo gruppo di banche è lo stesso e quello del credito cooperativo complessivamente inteso persino leggermente superiore. Eppure sui quotidiani continuiamo a sentir risuonare il mantra dei 'risiko-risiko' 'consolidamento-consolidamento', che saluta con grandi peana ogni ulteriore aggregazione di banche spa. Se negli Stati Uniti nessuno si sogna di distruggere la biodiversità bancaria anche in presenza di un sistema meno bancocentrico – e, dunque, con minore dipendenza delle imprese dal canale di finanziamento delle banche – è ancor più grave che questo accada nel nostro Paese. I dati che abbiamo citato riflettono la semplice conseguenza delle diverse funzioni obiettivo dei differenti modelli di banca. Se una banca massimizza il profitto, l’obiettivo è creare il massimo rendimento possibile per gli azionisti. E se questo è l’obiettivo, fare credito ( in particolare quello alle piccole e medie imprese e alle imprese artigiane) è attività da fuggire come la peste perché foriera di rendimenti assai miseri, oltre che di rischi elevati e di costi di accantonamento di riserve sempre maggiori. Poiché le alternative nel trading finanziario ci sono non è affatto sorprendente che il modello di banca dominante non abbia affatto usato le risorse della Bce per finanziare l’economia reale ( mentre le banche cooperative, con il 7% del mercato del credito, finanziano il 21% del credito delle imprese artigiane e il 57% del microcredito in Italia). Anche in questo caso i dati ci inchiodano alla realtà. La scelta di tagliare biodiversità non paga perché i volumi di credito alle imprese non finanziarie continuano a scendere e sono calati ai livelli del 2007. Il governatore Draghi appare sempre più consapevole della svogliatezza delle banche e cerca di ovviare al problema in due modi nuovi con le ultime decisioni: premiare con uno 0,40% le banche che usano i fondi messi a disposizione dalla Bce per aumentare i prestiti alle imprese e acquistare direttamente le obbligazioni delle imprese private. La prima mossa appare solo parzialmente efficace. Alla luce di quanto abbiamo considerato, per le banche massimizzatrici di profitto il premio dello 0,4% può non bastare a rendere più redditizio il credito rispetto alla compravendita di titoli o altre attività più redditizie che producono ricavi da servizi. La seconda mossa lo è sicuramente di più perché si aggira il circuito bancario andando a finanziare direttamente gli investimenti privati. Due sono in realtà le cose che renderebbero la strategia della Bce ancora più efficace. Prima di tutto si deve puntare in modo deciso sulla biodiversità bancaria, riconoscendo che accanto al modello tradizionale di grande banca spa (che mantiene un ruolo fondamentale) è importante sostenere e preservare quello delle banche non massimizzatrici di profitto che hanno una vocazione più spiccata per il credito al territorio (per questo è fondamentale, tornando all’Italia, chiudere bene la riforma del credito cooperativo). Usando il principio in voga negli Stati Uniti della regolamentazione differenziata per modello di banca e non quello a taglia unica ( one size fits all) che produce credit crunch (strette creditizie) e frustra i tentativi della Bce di allargare i cordoni del credito. In secondo luogo c’è da superare a livello europeo il tabù del divorzio tra Banca centrale e Tesoro, finanziando direttamente un programma di investimenti europei in infrastrutture alimentato da emissioni di eurobond. Con una mossa del genere è possibile risolvere il problema dell’insufficiente volume di investimenti privati che, oltre che essere un problema di offerta (di credito), è in parte anche un problema di domanda (di investimenti privati). Direzioni come quelle della banda super larga necessaria per l’industria 4.0 e dell’efficientamento energetico degli edifici sono due esempi concreti di dove potrebbero essere indirizzati tali investimenti. L’opinione pubblica e la politica non sembrano purtroppo ancora mature per questi due decisivi passi avanti. Prima lo diventeranno e meglio sarà per tutti.
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