sabato 28 marzo 2009
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I figli nati da fecondazione assistita in I­talia sono quasi raddoppiati. Secondo la relazione presentata al Parlamento e de­dicata all’attuazione della legge 40, l’in­cremento di nascite in tre anni è netto: nel 2007 sono 'transitati' per le provette oltre novemila bambini, contro i meno di cin­quemila del 2005, primo anno in cui tutti i centri italiani erano stati monitorizzati. Il primo elemento dunque nel bilancio del­la legge passata attraverso l’aspro scontro del referendum, è che non c’è stato il crol­lo di nascite e la generalizzata fuga all’e­stero delle coppie che non riescono a con­cepire. Oltre frontiera 'deve' andare chi vuole una diagnosi prenatale dell’em­brione, e dunque una selezione fra i figli concepiti, oppure chi ne chiede il conge­lamento, vietato dalla legge italiana. Al di fuori di queste possibilità, peraltro etica­mente critiche e non solo per i cattolici, i numeri della Relazione dicono sostan­zialmente che la legge funziona; e sem­brano anche svuotare dunque, nel meri­to, il ricorso avanzato alla Corte Costitu­zionale dai suoi avversari. Due, sostanzialmente, i punti critici del­l’attuazione: il primo segnala una percen­tuale più alta di quella europea di parti trigemellari. Per i detrattori del­la legge questa è la conseguenza del­l’obbligo di impian­to dei tre embrioni prodotti in provet­ta. Dal Ministero si replica che tale è il divario di gravidan­ze trigemellari tra un centro e l’altro – dallo 0 addirittura al 13 per cento del to­tale – che è evidente come non la legge, ma la pratica operativa dei centri deter­mini questo risultato. In altre parole, nei centri migliori si seleziona l’ovocita e si ot­tengono e impiantano solo uno o due em­brioni invece che tre, come usano fare in­vece i medici meno qualificati, per au­mentare le chance di successo. Di qui l’in­tenzione, importante, di arrivare a una classificazione di qualità dei centri, per­ché le donne sappiano con esattezza in quali mani si mettono, nella disparità fra strutture private e pubbliche, fra Nord e Sud. È anche questo un ordine necessario, nella ampiezza di un 'mercato' comples­so e agguerrito, che almeno la legge ha il merito di avere regolamentato. L’altra criticità italiana è l’età molto eleva­ta in cui le donne si rivolgono alla fecon­dazione assistita, 36 anni di media, con un quarto di richieste oltre i 40 anni, quando le possibilità di avere un figlio si abbassa­no drasticamente. Età elevata che però sembra un portato del ritardo sui tempi biologici con cui in Italia si arriva a cerca­re un figlio: lo si desidera a trent’anni, e a trentasei se non arriva si ricorre alle pro­vette. Molte gravidanze in più sarebbero fi­siologiche se si riuscisse ad agire su quei fattori sociali ed economici che portano la maternità in fondo, temporalmente, a­gli obiettivi che una donna deve realizza­re. Almeno in questa accezione avrebbe significato quel 'diritto al figlio' tanto de­clamato quattro anni orsono. Dal referendum che ha diviso l’Italia, e che ha visto i cattolici costretti a difendere u­na legge pure idealmente non condivisa per evitare che tutto nel campo della fe­condazione artificiale fosse possibile, i nu­meri dicono che le italiane hanno acces­so alla fecondazione assistita, senza biso­gno di emigrare. Che, anzi, il divieto di con­gelamento degli embrioni ha incentivato le tecniche alternative di crioconservazio­ne degli ovociti, in cui l’Italia è all’avan­guardia. La diagnosi prenatale sugli em­brioni, la selezione di quelli sani, il conge­lamento, nel nostro Paese restano inac­cessibili: la legge ha doverosamente limi­tato i 'diritti' dei genitori con quelli dei fi­gli in fieri – che non sono cose. E questa mediazione, e i numeri, dicono oggi che la avversatissima legge 40, la «legge crudele», la «legge bigotta», fuori dall’ideologia e nel­la realtà naviga, e funziona.
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