domenica 4 agosto 2013
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È uno stato di allerta vero, un "rosso" nel codice semaforico della Homeland Security, quello diramato dal Dipartimento di Stato per la giornata di oggi, che ha portato alla chiusura di ambasciate e consolati degli Stati Uniti e alla messa in guardia dei cittadini americani in viaggio in 21 Paesi "musulmani" (a parte il multiconfessionale Libano e Israele), dall’Algeria al Bangladesh, dal Pakistan a Gibuti. Il rischio, ricostruito a partire da una lunga e circostanziata serie di intercettazioni, è che Al Qaeda possa aver deciso di "solennizzare" alla sua maniera la fine del Ramadan - il mese di digiuno rituale dei musulmani - e il primo anniversario dell’assalto al consolato Usa di Bengasi,  inviando un segnale inequivocabile della sua resurrezione. La griffe multinazionale del terrorismo di matrice islamista ci ha messo un po’ di tempo dall’eliminazione del most wanted Osama Benladen a riorganizzarsi ma, complice una serie di errori commessi da una delle più fallimentari amministrazioni americane che la storia ricordi (per le politiche mediorientali), alla fine la coppia concettuale terrorismo/sicurezza torna a essere la lente con la quale l’America di Obama è costretta a inquadrare le vicende del Medio Oriente, come ai tempi dei Bush e di Clinton.
Se il presidente Obama si era convinto di aver "voltato pagina" rispetto alla centralità della sicurezza nell’agenda politica americana, l’illusione è stata in gran parte dovuta alla straordinaria priorità assunta dalle vicende della crisi economica e finanziaria negli anni recenti e non al fatto che nel frattempo fosero stati compiuti significativi passi in avanti per combattere gli eredi e gli emuli dell’emiro del terrore. Piuttosto, la politica mediorientale di Obama è apparsa ondivaga, talvolta persino incoerente, e troppo spesso timida anche nei confronti dei governi alleati: a cominciare dalla sostanziale rassegnazione a qualunque strappo da parte israeliana sugli insediamenti illegali in Palestina o nei confronti del sostegno garantito da sauditi e qatarini alle formazioni jihadiste in Siria.
Nei mesi successivi allo scoppio delle rivoluzioni arabe del 2011, però, l’abbaglio collettivo più grave è stato quello di ritenere che il successo elettorale delle formazioni politiche islamiste "moderate" potesse rappresentare un modo per tagliare l’erba sotto i piedi al jahdismo: un errore condiviso da moltissimi osservatori, compreso chi scrive tra l’altro. In realtà così non è stato, per due ragioni che avevamo sottovalutato. La prima è che i movimenti di piazza che hanno portato alla caduta dei dittatori in Tunisia e in Egitto (Libia e Yemen rappresentano due casi a parte, in Siria i giochi sono ancora aperti) non erano espressione dell’islamismo politico. Semmai gli islamisti sono stati in grado di intercettare e dirottare (a proprio esclusivo vantaggio) la spinta rivoluzionaria dopo il crollo dei vecchi regimi. Ragion per cui, quella parte di opinione pubblica meno ostile al jihadismo non ha considerato quelle rivoluzioni un proprio successo, ma semmai le ha guardate con sospetto, come nuove possibili forme di vittoria dell’"apostasia occidentalizzante".
La seconda ragione è che l’occupazione del potere da parte dei partiti islamisti "moderati" non ha minimamente prosciugato il brodo di cultura in cui il jihadismo prospera, espresso dallo slogan semplicistico e mistificatorio "l’islam è la soluzione". Semmai essa ha contribuito a far credere che, mutando lo strumento (dalle bombe agli editti), il fine di perseguire una società pura fosse in sé legittimo e rappresentasse comunque la risposta a problemi generati principalmente dalla sua "decadenza", intesa come allontanamento dalla fede correttamente intesa. Ciò che invece serve per combattere davvero il jihadismo è la diffusione anche nel dibattito pubblico arabo e musulmano della consapevolezza che la laicità - ovvero l’accettazione della voce dell’altro, il rifiuto di ogni dogmatismo e il rispetto del pluralismo - è imprescindibile per il successo della democrazia. Ovunque. Così c’è ben poco da stupirsi se il fallimento politico e amministrativo delle esperienze di governo dell’islamismo politico ridà fiato al jihadismo, contro le cui premesse e promesse ha fatto ben poco per lottare e con il quale condivide un disegno egemonico totalitario sulla società.
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