sabato 22 aprile 2017
La persona malata si trova in un sistema di relazioni, sia familiari che di cura: un gruppo (il paziente e la sua famiglia) sono oggetto di cura di un altro gruppo (il medico e tutti i professio
L'umanità che resiste tra medico e paziente
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Il nuovo testo del progetto di legge sulle «Disposizioni anticipate di trattamento» mi pare esprimere, tramite il recepimento di una serie di emendamenti e pur in presenza di persistenti motivi di perplessità, il grande lavoro di dialogo che i politici attenti a mantenere alte le garanzie dei pazienti vulnerabili hanno messo a disposizione di tutti i Deputati, che a loro volta hanno avuto la libertà di riconoscere quelle osservazioni come sensate e costruttive. Il comma 2 dell’articolo 1 cita il fatto che contribuiscono alla relazione di cura tutti i componenti di una équipe sanitaria. La persona malata è all’interno di un sistema di relazioni, sia familiari che di cura: un gruppo (il paziente e la sua famiglia) sono oggetto di cura di un altro gruppo (il medico e tutti i professionisti sanitari) che lavora in équipe, sono due gruppi che si relazionano: è una famiglia allargata, è la 'tribù'. Sottolineare questo aspetto implicitamente descrive l’autonomia del paziente come «autonomia relazionale», non mera autodeterminazione assolutizzata. Nel comma 5 nutrizione e idratazione artificiale sono definite terapie. Comunque, si esplicita che «il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, anche ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica».

È questo che il medico può fare: prospettare le conseguenze di un atto, e al contempo proporre alternative più affascinanti. Il medico può proporre esperienze di cura e di relazione belle e corrispondenti al bisogno dell’uomo, e testimoniare che ciò è possibile in 'luoghi di vita nuova', come gli hospice. Nel comma 7 vengono esclusi «obblighi professionali» del singolo medico a fronte di richieste del malato non condivisibili. La 'buona politica' ha così reso un servizio alla coscienza individuale dell’operatore, stando realisticamente nel mondo del possibile. Tutto l’articolo 1.bis è importante. Vengono sottolineate la terapia del dolore, le cure palliative e la necessità di astensione dall’accanimento terapeutico. Si potrebbe dire che tali aspetti sono già presenti nel Codice deontologico, ma il fatto di riaffermarli esplicitamente in questa sede ne sottolinea la valenza. Osando di più si sarebbe potuto sottolineare anche il fatto che un approccio di ascolto e di attenzione al paziente non è detto debba essere limitato alla fase agonica della vita, ma possa essere messo in atto da tutti coloro che si occupano di pazienti con patologia cronica inguaribile evolutiva. Un 'approccio palliativo' deve prendere modalità e connotazioni diverse se riferito a un paziente realmente in fine vita rispetto invece a pazienti o disabili portatori di una patologia o disabilità cronica, ma in fase di stabilità non evolutiva. Per quanto riguarda la sedazione palliativa profonda continua, è importante non fraintendere il senso di tale citazione.

La sedazione palliativa (di cui quella profonda continua è la modalità alla quale proporzionalmente si deve giungere in presenza di sintomi veramente refrattari non controllabili in altro modo), quando correttamente intesa, è una procedura sanitaria appropriata e non ha alcun tipo di impatto negativo sulla sopravvivenza dei pazienti. Sono chiarissime l’intenzione con la quale viene effettuata (sollievo dal sintomo refrattario), la procedura messa in atto (individualizzata e monitorizzata), e il risultato atteso (il controllo della sofferenza). Tutto l’articolo 2 sui minori e incapaci è molto delicato. Si è sentita la necessità di affermare il fatto che «la persona minore o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione», credo per sottolineare che nella vita reale la 'competenza cognitiva' non è un 'tutto o nulla', e che le residue o possibili capacità meritano di essere messe all’attenzione e valorizzate il più possibile, sempre all’interno della trama amicale e familiare e di sostegno organizzato. Dell’articolo 3 sulle Dat mi piace sottolineare la frase inserita riguardo al fatto che la persona maggiorenne può stendere le proprie disposizioni «dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte».

È come se il legislatore raccomandasse di facilitare e raccogliere una sorta di 'consenso informato sulle Dat' da parte del medico curante prima di farle stendere al cittadino. È possibile che questo atto non elimini in toto il difetto costituzionale delle Dat, cioè la distanza fisica, temporale e psicologica dal momento in cui sono stese a quello in cui eventualmente verranno utilizzate, ma di certo rappresenta uno stimolo a informare il cittadino il più possibile e a verificare il suo grado di consapevolezza. Vi è solo da sperare che il medico che aiuta il cittadino abbia una serie di conoscenze in grado di affiancarlo nel dare il proprio parere. Nel comma 5 dell’articolo 3 compare la possibilità per il medico di discostarsi dalle Dat nell’ipotesi in cui esse si manifestino come «palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale...». Si tratta di un riavvicinamento alle indicazioni della Convenzione di Oviedo che all’articolo 9 recita: «I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione» come qualcosa di estremamente importante, non meramente orientativo ma neppure assolutamente vincolante. Infine, l’articolo 4 sulla «Pianificazione condivisa delle cure» ripercorre l’approccio di un’alleanza terapeutica anticipata, ma nel corso di una patologia in atto, molto meno vaga e ambigua di una Dat effettuata in pieno benessere.

*direttore Unità cure palliative-Ausl Romagna-Forlì

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