martedì 12 novembre 2013
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​Ci sono località che, sconosciute fino al giorno prima, salgono d’improvviso agli onori della cronaca, spesso tragica, aprendo uno squarcio su una realtà altra; eventi luttuosi portano alla ribalta cittadine sconosciute, angoli di mondo dimenticati, popoli lontani. È accaduto con Columbine, negli Usa, dove nel 1999 si verificò un massacro di alunni e insegnanti; con Beslan, in Ossezia del Nord, teatro nel 2004 di una terribile strage di bambini; con Port-au-Prince, capitale di Haiti, rasa al suolo dal terrificante terremoto del 2010...Oggi è la filippina Tacloban a passare alla storia. La città spazzata via dal tifone Haiyan era sin qui nota esclusivamente perché nei suoi pressi, nell’autunno del 1944, vi sbarcò il generale statunitense Mc Arthur.Da qualche giorno quel nome, dal suono dolce ed esotico, ci è tristemente familiare. E, forse, stavolta più che in altre occasioni – di tanto in tanto eventi catastrofici ci ricordano che non è l’uomo il padrone dell’universo – quel nome ci resterà appiccicato addosso per sempre.

Già, perché se oltre diecimila chilometri separano Roma da Manila, in realtà le Filippine sono, per noi italiani, assai più vicine. Lo confermano le cronache di questi giorni. Mentre le tv diffondevano le immagini drammatiche del tifone, si faceva sempre più intensa la preghiera delle numerose comunità filippine presenti nel Belpaese, che già si stanno attivando per soccorrere i loro connazionali, inviando aiuti. È accaduto a Roma e Milano, ma anche a Firenze, Verona, Padova, Treviso, Siracusa, Reggio Calabria, Viareggio... Un segno eloquente di diffusione capillare, di inserimento nel tessuto vitale delle nostre città e della nostra Chiesa.

Discreti come sono, i filippini non fanno spesso notizia: raramente finiscono al centro di fatti di sangue o di cronaca nera. Eppure sono una delle comunità straniere più numerose e vivaci; ben 150mila persone, dicono le statistiche. Che collocano l’Italia al secondo posto in Europa, dopo la Gran Bretagna, nella classifica dei Paese col più alto numero di filippini. Arrivati in Italia a partire dagli anni Settanta, oggi vedono i loro figli studiare e giocare con i nostri.

La presenza dei filippini è talmente radicata da noi, specie nei lavori dove è richiesta pazienza e dedizione, che "filippina" è diventato – ahimè – sinonimo di donna delle pulizie. Ma filippino è, sempre più spesso, anche il fedele della sedia accanto alla Messa della domenica. Sì, perché se è vero che le Filippine sono il Paese più cattolico dell’Asia, è provato che quando prende la via dell’estero il cattolico di quelle latitudini non abbandona le sue radici cristiane, anzi ne fa motivo di fierezza e vive la Chiesa con sentimento di appartenenza, sebbene durante le celebrazioni sia magari il gregoriano a sostituire le armonie tradizionali delle isole d’Asia.

In presenza di eventi drammatici come il passaggio di un tifone, un terremoto, uno tsunami, non ha senso distinguere tra popoli di serie A e serie B. «Ogni uomo è mio fratello», tuonava Raoul Follereau decenni fa. Tuttavia, per le ragioni dette poc’anzi, è evidente che il disastro di Tacloban ci interpella in modo particolare, come qualcosa che ci riguarda da vicino. E ci deve muovere, oltre che a un abbraccio nella preghiera, a una solidarietà concreta e persino straordinaria.

Non soltanto a motivo dell’entità dell’accaduto, che pure fa tremare i polsi (620 mila sfollati, senza accesso a cibo, acqua e medicine, 9,5 milioni di persone colpite dall’emergenza umanitaria, di cui 4 milioni di bambini). Ma anche per quello speciale filo rosso che lega i destini di noi italiani (missionari compresi, alcuni dei quali hanno dato la vita del popolo delle Filippine) e gli abitanti di quelle isole. Così lontane, e da ieri, così improvvisamente vicine.

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