venerdì 21 ottobre 2016
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La morte di Valentina, 32 anni, all’Ospedale Cannizzaro di Catania dopo una degenza di diciassette giorni e dopo l’aborto spontaneo dei due gemellini che portava in grembo è un dolore immenso. La girandola di notizie sull’accaduto in sala parto, dove i gemellini sono usciti morti dal grembo, e il dito puntato contro un medico che avrebbe ritardato di intervenire dicendosi «obiettore di coscienza», e la costruzione implicita di un teorema che ha messo emotivamente in corto circuito obiezione e morte (vedete cosa succede per colpa degli obiettori? si muore), e l’indignazione suggerita alla pubblica opinione, è una provocazione ingannevole.

E se non fosse soverchiante in noi il dolore per quelle vite perdute, madre e figli in unico pianto, daremmo più spazio a un inverso e crucciato sconcerto. In ogni caso, chiarezza ci vuole e non confusione. I fatti, anzitutto. E le regole. I fatti sono al vaglio degli ispettori e sotto inchiesta della magistratura e ci attendiamo totale verifica. Ma già dall’interno dell’ospedale, del reparto, dalla voce dei protagonisti che hanno vissuto giorno per giorno e poi ora per ora la vicenda, dal direttore sanitario, dal primario, dalla cartella clinica, emergono dati specifici che escludono l’innesto e persino la pertinenza di una "obiezione" ai sensi della legge 194. Il quadro è quello di un aborto spontaneo; esso non incrocia l’obiezione legale, che è materia di aborto procurato.

Valentina aveva cercato la gravidanza con la fecondazione assistita; era andata in ospedale per salvarli, quei figli desiderati, e non certo per perderli. Due settimane di degenza non hanno scongiurato il pericolo; la situazione è precipitata, il primo gemellino è nato morto; l’espulsione del secondo, nella stessa tragica condizione del fratello, è avvenuta dopo stimolazione. Non ci sfugge il problema etico di un parto abortivo "indotto", ma nei casi estremi in cui non è più possibile salvare in nessun modo la vita del figlio, e se accorciare la durata di un processo abortivo spontaneo già in corso può salvare almeno una vita, meglio una vita salva che tutte perdute. La legge 194 consente al personale sanitario e agli ausiliari di «non prender parte» alle procedure e agli interventi abortivi di cui essa si occupa, quando dichiarino obiezione di coscienza.

Non si occupa, ovviamente, di aborti spontanei; quelli sono un campo della medicina, protesa naturalmente a salvare, a guarire, a curare, a scongiurare la morte. Ebbene, nessuno potrebbe farlo meglio di chi tien sacra la vita. Eppure nella tristissima morte di Valentina e dei suoi due figli, desiderati allo spasimo, è stato fatto pretesto per una lettura precipitosa, pregiudiziale e, dunque, inevitabilmente distorta dei fatti. Con sentenza già scritta e urlata attraverso megafoni mediatici: li ha uccisi la coscienza di un medico obiettore. Grave, gravissimo.Attaccare l’obiezione di coscienza come istituto, ingannando la prospettiva, oltre che fuor di luogo nel caso che stiamo trattando, è un controsenso in radice; la scelta fatta dalla legge ha uno spessore che oltrepassa il principio inviolabile della libertà, già sufficiente a fondarla, perché investe anche un orizzonte di valori sui quali si modella la fisionomia professionale e la tensione etica dell’uomo (e qualche illuminazione può venire in parallelo pensando alla storia dell’obiezione alle armi).

C’è nell’obiezione a partecipare all’aborto volontario e provocato la scelta di stare dalla parte della vita. Una scelta che di per se stessa sprona ogni tentativo terapeutico, quando la vita fosse minacciata (la vita della madre come la vita del figlio) dall’avvisaglia di un aborto spontaneo, che si annuncia come tragico scacco e dolore di una maternità infranta. Salvare, salvare quanto si può, quanto si riesce, è l’unico protocollo della buona medicina. Poi può esistere anche la mala medicina, o la sventura, o la fatalità: la morte o la mala morte. Ma scaricare la mala morte sull’obiezione è malpensiero.

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