mercoledì 20 maggio 2009
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«Cristo è venuto per salvare l’uomo reale e concreto, che vive nella storia e nella comunità, e pertanto il cristianesimo e la Chiesa, fin dall’inizio, hanno avuto una di­mensione e una valenza anche pub­blica »: così Papa Benedetto XVI, il 19 ottobre 2006, nel discorso al Conve­gno ecclesiale di Verona. Il rilievo ci­vile, pubblico della fede non è prete­sa abusiva o addirittura una prepo­tenza dei credenti, ma esito coerente di una fede che esprime una visione di uomo e di società. Senza prevari­cazioni, perché questo avviene – pro­seguiva il Papa – riconoscendo che «sui rapporti tra religione e politica Gesù Cristo ha portato una novità so­stanziale, che ha aperto il cammino verso un mondo più umano e più li­bero, attraverso la distinzione e l’au­tonomia reciproca tra lo Stato e la Chiesa, tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio». La fede cristiana è sì in­trinsecamente, originariamente, que­stione che interpella direttamente il singolo uomo, la singola donna – la salvezza non può essere altro che per­sonale –, ma è ad un tempo, con la stessa forza, un fatto pubblico: chi la professa – semplice cittadino o poli­tico investito di responsabilità rap­presentativa – non può non modula­re a partire da essa orientamenti e scelte, personali e pubblici. La fede è valore centrale, non accessorio tra­scurabile, opinione interlocutoria. La Chiesa, come ha ancora ribadito a Ve­rona il Papa «non è e non intende es­sere un agente politico. Nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene della comunità politica, la cui anima è la giustizia, e le offre a un du­plice livello il suo contributo specifi­co. La fede cristiana, infatti, purifica la ragione e l’aiuta ad essere meglio se stessa: con la sua dottrina sociale per­tanto, argomentata a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano, la Chiesa contribuisce a far sì che ciò che è giusto possa essere effi­cacemente riconosciuto e poi anche realizzato». L’intendimento della Chiesa trova interpreti consequenziali nei suoi figli, immersi nel mondo e chiamati a dare ragione pubblica del­la speranza – cioè della visione – che c’è in loro. Sono loro che devono, con intelligenza e competenza, senza ri­trarsi dalla fatica che l’impegno può ri­chiedere, elaborare proposte il più possibile coerenti, sulle quali cercare di coagulare il massimo consenso. Un’adesione non fideistica, ma soste­nuta dalla ragione, dalla pertinenza ai problemi. È singolare che mentre prendono piede servizi espressamen­te dedicati al «lobbying», cioè a cal­deggiare presso i parlamentari gli in­teressi di questa o quell’azienda, si o­bietti al fatto che qualcuno ritenga di farsi ispirare dalla propria fede. In­somma, pare proprio che la risposta migliore all’auspicio di Gianfranco Fi­ni per leggi «non orientate da precet­ti di tipo religioso», l’abbia data il suo omonimo, presidente della Camera, che appena tre mesi fa ebbe ad au­spicare «una laicità non certo aggres­siva nei confronti della religione, alie­na da degenerazioni laiciste ed anti­clericali, aperta al riconoscimento del ruolo attivo e positivo della Chiesa nel­la società italiana. Una laicità dello Stato che deve però tenere conto che viviamo in un Paese la cui storia è i­nestricabilmente intrecciata alla vi­cenda del cristianesimo e della Chie­sa romana, perché si possa minima­mente immaginare un reciproco di­sinteresse » (G. Fini, Lettera a 'La Re­pubblica', 19/2/2009). L’auspicio è che i due si parlino. E mentre non ci illudiamo che l’Italia adotti il motto degli Usa «In God we trust» («Confi­diamo in Dio»), non vorremmo tutta­via si cadesse nel suo contrario e che si intendesse per buona laicità la dif­fidenza verso Dio e chi in lui crede o­nestamente.
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