mercoledì 8 febbraio 2017
Oggi cambia il terzo settore e il modo in cui si produce valore nella società. L'innovazione radicale delle imprese ibride consiste nel dilatare e civilizzare il mercato
L'impresa giovane è «ibrida». Il sociale non ha più confini
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In una delle tante periferie della sfavillante smart city milanese si trova una cascina dedicata a Sant’Ambrogio, il patrono di Milano. È una delle tante ex fattorie che oggi punteggiano il tessuto urbano e che sono state oggetto di rigenerazione. Si trova in uno slargo tra il passante ferroviario e il trafficatissimo viale Forlanini, con vista sull’omonimo parco. A gestirla è un’associazione, CasciNet, che, come recita la dichiarazione di missione, si occupa di «studiare, tutelare e valorizzare l’identità storica, artistica e ambientale di Cascina Sant’Ambrogio». Fin qui nulla di strano, finché non ci si addentra nelle attività dell’associazione. Da lì in poi tutto si fa più 'ibrido' ed è proprio da questa ricombinazione di valori che nascono nuove forme di organizzazione di impresa a finalità sociale. CasciNet infatti ha trasformato gli spazi della cascina in «hub multiservizi di innovazione agricola, culturale e sociale» dove si trova uno spazio di coworking, un incubatore di imprese, laboratori di restauro, una foresta commestibile fruita e cogestita, servizi sociali per persone escluse e l’immancabile eventologia cultural-ricreativa milanese. Troppe cose – e pure diverse – per un’associazione che per di più ha siglato un accordo con il Comune di Milano impegnandosi a «garantire 190.000 euro tra investimenti obbligatori e facoltativi nella manutenzione straordinaria per il recupero della Cascina».

Eppure CasciNet è sempre meno un’eccezione. È sì una 'buona pratica', figlia però di una mutazione profonda che interessa ormai da decenni il mondo del 'sociale' – associazioni, cooperative, fondazioni che formano il Terzo settore – ma che più recentemente investe, in senso più ampio, anche il modo in cui si produce valore nella nostra società. Per cui a essere chiamate in causa sono tutte le istituzioni e i confini che tradizionalmente ne sanciscono l’identità: il privato dal pubblico, il non profit dal for profit, il mercato dal dono. A essere particolarmente scossa, in questa trasformazione, è l’identità stessa delle organizzazioni sociali: perché un conto è riconoscerla tracciando un perimetro, inevitabilmente ristretto, per collocare al suo interno tutte le forme giuridiche che sono 'terze' rispetto alle istituzioni dominanti dello Stato e del mercato; altro è costruire l’identità all’interno di un percorso evolutivo che restituisce la vitalità di un settore che non è più sperimentazione, ma un vero e proprio comparto, ben diverso dalle origini.

Per avere conferma di questa mutazione si può guardare ai dati di sistema. Il non profit è fatto di volontari? Vero, sono quasi 6 milioni (secondo gli ormai vetusti dati Istat del 2011), ma al loro fianco opera quasi 1 milione di lavoratori retribuiti. E ancora: il sociale vive di donazioni private e contributi pubblici? Vero, ma quasi il 20% dei 63,9 miliardi di entrate avviene attraverso scambi di mercato con famiglie, cittadini, imprese, altre organizzazioni non lucrative. E infine: il non profit eroga i suoi servizi a soci di associazioni, organizzazioni di volontariato e cooperative sociali? Sì, ma con consistenti eccezioni, considerando che sono oltre 20 milioni gli 'utenti disagiati' (persone malate, povere, disabili, immigrate, ecc.) che usufruiscono delle loro attività senza alcun vincolo associativo.

Il tema dell’identità, insomma, emerge non per via statutaria, ma sempre di più per l’impatto che deriva dalla gestione di concrete attività. Questo è indice di un elevato grado di cambiamento, che procede sia per spinte interne sia per effetto di trasformazioni della società, di cui il Terzo settore è parte integrante. Un passaggio che ridisegna le organizzazioni dalle fondamenta, in funzione della diversa natura che assumono i bisogni – sempre più personalizzati e sempre meno intermediati dai corpi sociali tradizionali – le motivazioni delle persone che vi operano – con ruoli anch’essi sempre più ibridi tra produttore, consumatore e finanziatore – e non ultimo le tecnologie che sono sempre meno supporti e sempre più parte dell’umano, in particolare della sua dimensione relazionale.

Tutto questo richiede nuovi meccanismi di generazione del valore che tendono a ricombinare sociale ed economico, e non a separarlo. Non esiste infatti solo la mutazione del non profit, che ha assunto una più estesa vocazione imprenditoriale con oltre 82mila organizzazioni (quasi un quinto del totale) che ricavano oltre la metà delle proprie risorse economiche da scambi di mercato. Vi è anche il crescente orientamento della Pubblica Amministrazione a premiare forme organizzative in cui efficienza e dimensionamento si accompagnano a capacità di co-progettualità e co-investimento facendo leva su meccanismi, tipicamente ibridi, di partnership pubblico-privata. E, ancora, va osservata la forza trasformatrice esercitata da un numero crescente di imprese for profit che costruiscono la propria competitività dentro il perimetro del valore condiviso, inteso nella sua valenza comunitaria, coesiva e collaborativa.

Anche quest’ultimo è un mutamento più profondo di quel che dice la punta dell’iceberg rappresentata da poche decine di 'società benefit' (riconosciute nell’ultima legge di bilancio) e dalle 120 startup innovative a vocazione sociale. Numeri non certo consistenti come le 14mila imprese sociali di origine non profit, ma che comunque crescono velocemente e soprattutto poggiano su popolazioni organizzative più ampie, come le oltre 8mila 'imprese coesive' censite da fondazione Symbola. Si tratta di piccole e medie imprese for profit attive nei settori di eccellenza del made in Italy (manifatturiero, agroalimentare) che performano meglio in termini di fatturato, occupazione, internazionalizzazione perché investono non solo in innovazione tecnologica, ma anche sulla coesione sociale e sulla valorizzazione di risorse 'di luogo' (attrattori culturali, competenze diffuse, relazioni con la società civile) rendendole parte integrante della loro catena di produzione del valore.

L'innovazione radicale delle imprese ibride, insomma, consiste nel dilatare e civilizzare il mercato piuttosto che limitarsi ad ampliare il Terzo settore. Ma questo processo ha bisogno di politiche che agiscano ad almeno tre livelli: 1) stimolare gli amministratori pubblici all’uso, anche sperimentale, di forme più aperte di impresa sociale, in particolare guardando a risorse di investimento che premiano anche l’impatto sociale per alimentare un nuovo ciclo di sviluppo locale; 2) dar vita non a politiche di innovazione settoriali, ma a un ecosistema di risorse utile a coinvolgere persone e imprese in progetti legati a beni comuni, nuovi servizi alla persona, nuova manifattura e nuove tecnologie; 3) favorire l’intersezione dei settori e delle competenze nella produzione di beni e servizi dove le imprese sociali fungono da agenzia per promuovere un imprenditorialità diffusa e sostenibile. La conferma del valore autenticamente sociale di molte imprese ibride viene dai giovani. Servono infatti occhi nuovi per leggere l’innovazione che si manifesta. Una recente ricerca sui giovani negli Stati Uniti (i millennials) evidenzia come sia proprio la pluralità di obiettivi il fine dell’impresa a cui guardano. Forse è così anche in Italia dove i dati delle Camere di commercio dicono che le imprese fondate dagli under 35 sono ormai più di 630mila e crescono a ritmi più elevati della media, con un minor tasso di chiusura. Forse lo è anche nella periferia di Milano, dove i fondatori di CasciNet sono, guarda caso, tutti trentenni.

* direttore di Aiccon, Associazione per la promozione della cultura della cooperazione e del non profit

** Segretario generale di Iris Network Istituti di ricerca sull’impresa sociale Autori di 'Imprese Ibride' (Egea)

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