martedì 5 luglio 2011
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Caro direttore,ero seduto sotto il campanile di piazza San Marco, a Venezia. Un bambino, vicino a me, chiede a suo padre: «È questa la chiesa più bella del mondo?». Costui si guarda intorno, imbarazzato, poi dice: «No, forse è il Duomo di Milano». A questo punto io intervengo con una domanda: «Avete mai sentito parlare della quattro basiliche romane che, nella loro semplice maestà, sono il modello di tutte le chiese del mondo?». Hanno avuto un po’ di difficoltà nel rispondermi, soprattutto quando ho chiesto loro quali fossero le quattro basiliche di cui sopra. È il solito problema italiano. Prima fiorentini, veneziani, lombardi e poi italiani. Incapaci di inserire i cerchietti più piccoli dentro la circonferenza più grande. Le parti dentro il tutto, gli effetti dentro le cause. Schiavi degli stereotipi e delle antitesi: «Milano, capitale morale», si dice. Quasi che l’altra, Roma, fosse, per un dogma mai dimostrato, «capitale immorale». Il Nord-est produttivo e pragmatico. Quasi che tutti gli altri italiani fossero fannulloni, sognatori e statalisti. Le generalizzazioni, scriveva Aristotele, possono aiutare a catalogare la conoscenza, ma non sono oggettive. Se ho visto venti gatti grigi, afferma Popper, non mi è lecito affermare che tutti i gatti siano grigi. Non li conosco tutti. Così Milano diventa il mito della sacra imprenditoria capitalistica, mentre di Roma è obbligatorio parlar male in quanto (ma questo non lo si dice) centro mondiale del cattolicesimo. Dimenticando che Milano, la città di Ambrogio (figlio di un prefetto romano) è uno dei centri più cattolici del mondo e che è stata permeata profondamente dalla Controriforma grazie a personaggi come san Carlo Borromeo, nipote di un Papa, Pio IV. «Il capolavoro della propaganda anti-cristiana – sostiene Lèo Moulin, tra i massimi conoscitori del Medioevo, agnostico e pressoché ateo – è l’essere riusciti a creare nei cristiani, nei cattolici soprattutto, una cattiva coscienza. A instillargli l’imbarazzo, quando non la vergogna, per la loro storia. A furia di insistere, dalla Riforma sino ad oggi, ce l’hanno fatta a convincervi di essere i responsabili di tutti o quasi i mali del mondo… Da tutti vi siete lasciati presentare il conto (protestanti, femministe, omosessuali…), spesso truccato, senza quasi discutere. E se talvolta del vero c’è, è anche vero che in un bilancio di venti secoli di cristianesimo, le luci prevalgono di gran lunga sulle ombre. Ve lo dico io (agnostico ma storico che cerca di essere oggettivo). Ma poi: perché non chiedere a vostra volta il conto a chi lo presenta a voi? Sono forse stati migliori i risultati di ciò che è venuto dopo? Quella vergognosa menzogna dei secoli bui del Medioevo, perché ispirati dalla fede del Vangelo! Perché, allora, tutto ciò che ci resta di quei tempi è di così fascinosa bellezza e sapienza? Anche nella storia vale la legge di causa ed effetto…».

Luciano Verdone, Teramo

Rileggo sempre volentieri pagine e giudizi di Lèo Moulin, e ne apprezzo lucidità e profondità tanto quanto certa elegante vis polemica. La ringrazio, caro professor Verdone, per avercene riproposto una delle più giustamente famose a suggello della sua riflessione. Si può essere non credenti senza diventare anti–cristiani e anti–cattolici (o anche solo atteggiarsi a tali con dedizione degna di miglior causa...). Quel grande studioso belga, da spirito libero e da uomo straordinariamente colto e serenamente inquieto, ce l’ha dimostrato con certezza. Ho in mente un manipolo di polemisti – agnostici o atei dichiarati – specializzati in deformazione e dileggio di quasi tutto ciò che è Chiesa (o sa di Chiesa) che potrebbero lasciarsi interpellare utilmente dall’esempio di Moulin.È del resto evidente, gentile professore, che il senso vero della sua lettera non è solo “geopolitico” o “geoeconomico”. Il suo è un invito a non farsi imprigionare dagli stereotipi e dai pregiudizi, magari – anzi, assai spesso – interessatissimi. Un impegno che coincide, in vasta misura, con quello contro l’incistarsi nei meccanismi personali e collettivi di pensiero e di diatriba di ineffabili luoghi comuni. È un’autentica battaglia di civiltà, che mi piace chiamare, appunto, di “liberazione dal luogocomunismo”. Non sarà mai abbastanza benvenuta, e nessuno dei suoi fronti cruciali si aprirà troppo presto...
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