sabato 6 aprile 2013
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Quello che abbiamo è la vita. Non è neppur nostra la vita, dapprincipio; essa ci è data come si dà un dono, e chi lo riceve non sa neppure perché pro­prio a lui. È l’approdo alla infinita spiag­gia dell’essere, toccata in sorte; fatta di gioia e fatica, si sa, di dolore e d’amore; innervata dalla speranza, insidiata dal­la contiguità della morte. Chiamata alla felicità per vocazione irresistibile, biso­gnosa di comunione e soffocata di soli­tudine, espansiva o incupita dal bisogno e dallo stento, confortata d’aiuto o car­cerata nei chiusi orizzonti dell’indiffe­renza senza futuro.
Torna ogni volta a frugarci come una la­ma nel cuore l’enigma della vita, ogni volta che sentiamo dalle cronache rac­contata la morte come l’epilogo voluto – e non sapremo mai se imprecazione o invocazione – di un 'non poterne più della vita', che contrassegna i suicidi: se­gno ambivalente di una speranza abor­tita o di una disperazione traboccata. Noi vi assistiamo per solito con ordina­to sgomento, dicendo 'gesti folli' o cer­cando ragioni di resa, nello scorrere po­vero degli anni grami e della vita agra de­gli sconfitti, dei perdenti, degli espulsi che firmano la loro fine. E invece sem­pre ci resta dentro come una pugnalata quel grido di morte, quella lacerazione che spezza di colpo l’armonia, ferma l’orchestra, scurisce l’orizzonte: e ci in­chioda a un silenzio di paura e rabbia e vergogna.
E pietà. Per loro, e per noi. Per questo senso di contagiata sventura, che ci procura l’immediata, miserabile ras­segna dei nostri mezzi di rimedio o di scampo, quando i vivi si danno morte accanto a noi senza che noi abbiamo neppure supposto che sia possibile im­maginare cosa. E ascoltare, e avvicina­re, e chissà. Chissà quali scacchi usa la morte previa, la morte incrociata, la morte dei fari spenti dell’anima, la morte dell’abbandono.
Il pensiero ora ripercorre il fluire della vita umana, di ogni vita, dentro la fine­stra del tempo. Lungo o breve, segnato di luci o di lutti, è quanto ci è dato per capire il senso dell’essere. Ma la singo­larità di questa ventura è l’insieme, la coesistenza, la contiguità dell’essere no­stro, la condivisione. E il suo culmine può chiamarsi a ragione 'confidenza', confidenza fra noi, arte di narrarsi e di a­scoltarsi. È come darsi vita, così, gli uni con gli altri, è come rintuzzare la morte, le seduzioni della morte. Ma se oggi ci tocca raccogliere la tragica confidenza dei suicidi vuol dire che siamo in ritar­do sull’orologio dell’attenzione. Allora ci toccherà capire, dopo la triplice se­quenza di morte procurata a Civitanova Marche, ieri, se è la desolazione della po­vertà materiale, o la denuncia d’una so­litudine esistenziale, il crollo della spe­ranza che spezza la voglia di vita. Ci toc­cherà capire che cosa è accaduto nei giorni e nelle anime di due coniugi sui­cidi, 62 anni lui, muratore licenziato, 68 lei, artigiana pensionata: soli, e così di­gnitosi da non chiedere aiuti, ma ag­grappati a una misera pensione certa e a un’incerta attesa di stipendi arretrati. E proveremo a capire, per sovrappiù, quale dolore o ricordo ha squarciato cuo­re e mente dell’anziano fratello di lei, fi­no a precipitarlo in mare alla notizia. Di fronte a ogni suicidio si agita sempre il pensiero di un giudizio potenzialmen­te usurpato. I princìpi stanno lì, saldi, ma giudicare le storie umane non spet­ta a noi, non spetta a nessuno. Chi si dà morte si è dato una specie di condanna a morte, e la prima risposta è che no, che non è la morte la risposta giusta, non è la morte la giustizia; e anzi la morte o­scura è l’ultimo nemico di cui ci è stata promessa la sconfitta.
Quanto la seduzione di sconfitta (di mor­te) peschi nell’indifferenza verso i biso­gni e le sventure degli altri è il problema principe che dovrebbe svegliare la Re­pubblica dai suoi letarghi. La politica dai suoi giochi. E la comunità cristiana dal­le sue pavidità.
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