giovedì 15 agosto 2013
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Alla fine i militari hanno rotto gli indugi, decidendo di sgomberare con la forza i sit­in dei sostenitori dei Fratelli musulmani. I morti si contano a centinaia, e il Paese sembra sull’orlo del caos. Le ore della notte saranno probabilmente decisive per capire se il generale al-Sissi – colui che ha deposto il presidente Morsi alcune settimane fa – sta vincendo la sua scommessa di salvare l’Egitto sia dall’egemonia islamista sia dalla guerra civile. La situazione resta fluida e persino confusa.
Mentre il governo annuncia la volontà di tenere nuove elezioni tra se mesi, viene anche proclamato lo stato d’emergenza per i prossimi trenta giorni. Una misura, questa, che ha immediatamente provocato la reazione contrariata degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e del Segretario generale dell’Onu. Nel corso della giornata di ieri, gli incidenti hanno riguardato diverse città del Paese oltre al Cairo. Almeno un posto di polizia è stato assaltato insieme a una ventina di chiese cristiane, che sono state date alle fiamme, a testimonianza che esiste il rischio concreto del dilagare della violenza, nonostante la misura straordinaria del blocco della circolazione ferroviaria decisa dal governo.
Sul piano politico, al-Sissi subisce un duro colpo dalle dimissioni del vicepresidente el-Baradei (premio Nobel per la pace): un colpo in realtà più pesante sul piano internazionale che su quello interno. Contrariamente alle voci che si erano diffuse il giorno prima, la presunta trattativa tra esercito e Fratellanza alla fine non c’è stata o, se è stata tentata, è finita prima ancora di cominciare. Occorre sottolineare che la disponibilità tardivamente esibita dalla dirigenza dei Fratelli musulmani appariva più tattica che sincera, come dimostrato dalle richieste preliminari di un «ripristino della legalità» e della scarcerazione di Morsi, inaccettabile per il nuovo governo. Allo stesso tempo è necessario chiedersi che cosa abbia indotto l’esercito ad agire con tanta improvvisa precipitazione, dopo che per giorni e giorni era sembrata prevalere una maggior cautela. Difficile credere che al-Sissi non avesse messo in conto che la comunità internazionale avrebbe reagito con irritazione a un bagno di sangue o che i seguaci di Morsi si sarebbero fatti sgomberare senza opporre una strenua resistenza. Possibile che al-Sissi abbia agito consapevole della propria forza come della propria debolezza: entrambi i moventi possono spiegare l’assunzione di una rischio così temerario.
A questo punto gli scenari possibili non sono molti. Il primo prevede che l’esercito mantenga la coesione e riesca cambiare la situazione sul terreno, spezzando il nerbo della resistenza dei seguaci di Morsi, arrestando i leader della Fratellanza e riportando la rivoluzione nel suo alveo originario. Se questo riesce in un tempo ragionevolmente breve e con un numero contenuto di vittime, è possibile che il sostegno interno al golpe di al-Sissi cresca e che la situazione del Paese possa pian piano normalizzarsi, l’economia riprendersi e così via.... È uno scenario di tipo nasseriano, che inscriverebbe il colpo di Stato e i suoi sviluppi nel processo rivoluzionario iniziato in piazza Tahir quasi due anni fa e intercettato e dirottato dalla Fratellanza musulmana.
Lo scenario opposto ipotizza che invece l’esercito fallisca e prevalgano i Fratelli: questo aprirebbe la via al loro ritorno al potere, che però non troverebbe più alcun bilanciamento o freno nel timore dell’esercito (che diverrebbe politicamente irrilevante), nella separazione dei poteri (già ampiamente giubilata ai tempi di Morsi) o nella Costituzione settaria che era stata imposta a tutto l’Egitto. Per essere chiari: se i Fratelli musulmani vinceranno, gestiranno il potere in maniera ancora più autoritaria e settaria di quanto abbiano fatto con Morsi. 
Il terzo scenario prevede che il Paese scivoli in una guerra civile, probabilmente non molto prolungata, dal quale uno dei due schieramenti emerga alla fine vincitore. Poco plausibile invece che l’Egitto imbocchi la via di una guerra civile di tipo siriano e persino algerino.
Se i ranghi dell’esercito si manterranno fedeli alla loro linea di comando, sembra che il primo dei tre scenari sia quello più probabile e, alla fine, anche quello che nel lungo periodo consentirebbe una miglior tutela del pluralismo politico, sociale e confessionale dell’Egitto. Mi pare che invece siano al momento piuttosto esigue le chances di individuare soluzioni di compromesso, che oltretutto non converrebbero né agli egiziani né alla più parte degli attori esterni.
Per i nostri governi, accanto alle raccomandazioni doverose e rituali al rispetto dei diritti umani, resta comunque aperta una via di azione più concreta. Quella di esercitare una discreta pressione affinché, una volta cambiata la situazione sul terreno e sconfitta questa dirigenza della Fratellanza, vengano ripristinate le condizioni per un dialogo politico inclusivo e non settario: esattamente quello che non ha fatto Morsi e che è costato a lui la poltrona e all’Egitto un anno di disastri e il dramma attuale.
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